
“Uno che conoscevo”, l’ultimo lavoro del regista e drammaturgo Corrado Accordino in scena al Teatro Libero, esplora il “dietro le quinte” della redazione di un telegiornale. La trama si sviluppa intorno alle vicende di quattro personaggi, in un intreccio che si gioca tra i malumori e le sfuriate del capo direttore, le crisi d’alcool e d’egocentrismo del volto più noto dei telegiornali, il pragmatismo e la mediocrità di una giornalista qualunque e le aspettative della nuova stagista, che stravolge il lavoro abitudinario della redazione.
All’interno di un plot intricato, che tuttavia si scioglie in modo lineare, senza perdere mai il filo, la riflessione emerge dalla narrazione stessa. Proprio dalle relazioni tra i personaggi, dalle loro personalità e dai dialoghi affiora ora un giornalismo impegnato a nascondere le vere notizie e a rialzare l’audience, ora uno centrato sull’importanza della verità e del racconto dei fatti.
La verosimiglianza è un imperativo che innerva l’intera messa in scena. Come per le giornate di lavoro, che vengono scandite grazie all’impiego preciso delle luci e di musiche attuali e grintose. La scenografia non fa che confermare la minuziosità dei dettagli: sulle quattro scrivanie in palcoscenico non solo ci sono computer in funzione, ma anche fogli e fascicoli, porta biro, fiori, tazze da caffè, tutto ciò che serve per restituire con estremo realismo una vera redazione.
La scelta drammaturgica si rivela ingegnosa e ben riuscita, anche arricchita dalla recitazione degli attori. Un involucro di vetro sembra arrampicarsi sulla quarta parete del teatro: Accordino affronta il tema dell’informazione adattando il linguaggio teatrale ai moduli ben conosciuti della fiction, portando sul palcoscenico la puntata di una serie televisiva. L’argomento viene osservato rinunciando a toni critici o indagatori, lasciando piuttosto che venga a galla attraverso l’intelaiatura della storia.
Ponendo che l’unica verità a cui sia possibile accedere è quella che viene raccontata, lo spettacolo mette in luce i criteri e le modalità con cui viene scelta una notizia, senza imporre allo spettatore una prospettiva piuttosto che un’altra, ma semplicemente rappresentando. «La verità c’è o non c’è», proclama il capo direttore, ma pare ugualmente opportuno porsi il problema di come raccontarla: è necessaria la ricerca di una medietà, che non si traduca né in menzogna o in mercato, né nell’autorità di un’opinione sul fatto.
Uno spettacolo arguto e interessante sul mestiere del giornalista – il solo a fornire gli strumenti che costruiscono la nostra di verità – si traduce in una scelta importante in un momento in cui il rapporto tra apparenza e realtà viene mediato di continuo dai molteplici mezzi di comunicazione che riempiono la nostra quotidianità.
Chiara Musati
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