Cent’anni fa nasceva Giorgio Strehler. Ritratto del Maestroò_

giorgio strehler

Strehler, basta il nome perché si attivi una sorta di riflesso pavloviano in grado di richiamare immediatamente il teatro. Prima di tutto appariva quel viso antico, da patrizio romano, in cui ogni ruga sembrava essere il cerchio ulteriore di un tronco formatosi ad ogni anno di stagione teatrale,e quella voce calda, avvolgente, mesmerizzante, grattata e sempre sinceramente ventrale, era la migliore cartina di tornasole di una passione sempre viva ed accesa. Trasformava il palcoscenico in una sorta di atanor, un fornello alchemico, capace di trasformare la drammaturgia nell’oro della rappresentazione. Cos’è che dava il sapore inconfondibile della poesia alle sue regie? La risposta la fornisce Aristotele nella Poetica quando individua l’essenza di questa forma artistica, l’universalità. Ogni gesto era letteralmente scolpito nel marmo della carne, e infatti trattava il corpo degli interpreti come Micheangelo, Bernini, Canova, trattavano la materia da scolpire. Ogni battuta, ogni parola, ogni fonema, doveva avere il carattere della necessarietà, della definitività.

Con l’instancabilità di un Socrate, cercava la verità del testo, scavando con le mani nude della mente e del cuore nelle zone più profonde, apparentemente insondabili. A buon diritto si può considerare il. suo approccio alla regia un metodo dialettico, in cui si doveva passare dal travaglio del negativo, provare, scartare, e provare ancora fino a trovare la soluzione giusta. C’era davvero qualcosa di veramente magico nei suoi spettacoli, la magia degli antichi sacerdoti zoroastriani, capaci di richiamare gli spiriti, le forze invisibili. Assistere ad un suo spettacolo era l’occasione per accorgersi di una realtà che smetteva di scorrerti distrattamente addosso, ed appariva davanti agli occhi finalmente in purezza, una forma di umanesimo che si mostrava con una sua propria spiritualità, e ciascun “adesso” dello spettacolo era il risultato di un attento e cesellante lavoro di oreficeria. Restituire quella percezione dell’incanto nei confronti di ciò che si percepisce, del senso del mistero, lo stesso che si provava da bambini, era la sua dote. Ed ecco che la sua mano di trasformava in una bacchetta magica, la stessa di Prospero, o in quella del direttore d’orchestra in grado di portare la concordia tra i vari strumenti musicali. Un tramonto, un sole, un taglio di luce, nei suoi spettacoli potevano diventare un eterno cruccio, la realizzazione del paradosso del più vero del vero, ed allora si aveva l’impressione che tirasse giù dall’iperuranio l’idea stessa di un oggetto scenico, la sua quiddità, in definitiva la sua essenza. La sua luna era la luna a cui quella vera sembrava ispirarsi.

Aveva la consapevolezza di essere stato l’oggetto di una vocazione ad una forma di sacerdozio, di officiare ad ogni rappresentazione un rito sacro, di riconsacrare ad una nuova moderna reincarnazione di Dioniso lo spazio scenico. Davanti agli occhi della platea, che si trattasse di uno Shakespeare, di un Goldoni, o di uno Strindberg, appariva tutta la meravigliosa estetica di un gioco tremendamente serio, e all’ improvviso l’esistenza appariva illuminata dalla luce giusta, quella tonalità di blu che si potrebbe definire strehleriana, la vita si scrollava dalle ali il fango della quotidianità, e riprendeva a volare, a toccare l’ultimo cielo, a dire l’indicibile, ad illuminarsi del montaliano immenso, a riscoprire l’impronta divina nell’essenza umana. E poi nella sequenza genetica del suo teatro troviamo Brecht, ovvero la responsabilità etica e civile del palcoscenico, l’esigenza di trasformare ogni gesto in un gesto sociale, immediatamente riconoscibile, di straniare ogni istante dl tempo scenico perché ci si accorga di esso, affinché sfugga alla sordina del già visto e del già ascoltato.

Era impossibile che la mente degli spettatori vagasse distratta durante le sue rappresentazioni, dal momento che si trovava intenta a scrutare il gioco di prestigio di quella magia, cercando invano di indovinarne il trucco. Ma la verità era che la chiave di tutto consisteva in un trucco talmente perfetto da smettere di essere tale, di traguardare nella verità non di ciò che si guarda, ma di ciò che sta dietro lo sguardo. Non poteva che essere lui ad incarnare Faust, che così bene aveva la facoltà di rappresentare la sua voglia di conoscenza, di chiudere nel limitato cerchio umano quella inesauribile fame di assoluto, eterna come la fame e la sete del mitologico Tantalo. C’è una frase del drammaturgo Adamov in grado di rappresentare un’ottima ed efficace sintesi del suo teatro, o meglio Teatro che si riconquista, a buon diritto, la lettera maiuscola, “un’opera teatrale deve essere il luogo dove il mondo visibile ed invisibile si toccano e si urtano”. E davvero, al pari di un esperto tessitore, Strehler è riuscito nel’impresa di gestire questa trama e questo ordito, e di far intravedere, dietro una fenditura dello spazio fisico, il paesaggio inenarrabile di una metafisica, che sopravvive come una eco, una persistenza retinica, nella mente, nel cuore e soprattutto nello spirito, di ogni spettatore che ha assistito al rito del suo impareggiabile realismo poetico.

Danilo Carava

Be the first to comment

Leave a Reply

Your email address will not be published.


*