Nel momento in cui ho deciso di andare a vedere uno spettacolo che trattava di pena di morte e di sedia elettrica, ho cercato di farlo con il cuore aperto in modo da confrontarmi con una situazione che, forse, essendo lontana dalla nostra realtà, può sembrarci quasi un po’ irreale. Ma irreale non lo è, affatto.
La pena capitale nel nostro paese è stata abolita all’inizio del 1948 ma, dall’ultimo rapporto di Amnesty International, patrocinante dello spettacolo, emerge che le esecuzioni oggi siano applicate ancora in 22 paesi nel mondo; tra questi vi sono gli Stati Uniti, luogo in cui è nato, vissuto e morirà il protagonista di “Another dead man walking“, scritto e interpretato con intimo trasporto da Paolo Scheriani, sotto la direzione di Nicoletta Mandelli.
Il condannato ci accoglie con l’abito da carcerato nella sala della sua esecuzione, seduto accanto alla sedia elettrica che porrà fine, tra un’ora, alla sua tormentata esistenza; ci guarda negli occhi con profonda tristezza, chiede silenziosamente scusa ma con dignità, perché il suo gesto criminale porta dentro di sé tutta la rabbia, la frustrazione e il dolore dei drammatici anni della sua gioventù.
Chi è il nostro condannato? Con le sue parole vuole farcelo capire, e a tratti è lucido e rassegnato, a tratti si infiamma e alza la voce; chiede aiuto, ha paura di morire, e poi chiede scusa, torna calmo, perché lui è colpevole. Lui ha ucciso.
Noi siamo gli spettatori della sua esecuzione, chiamati a partecipare più intimamente allo spettacolo provando a metterci nei panni dei diversi ruoli che ci vengono assegnati prima di entrare in teatro: avvocato dell’accusa, parente della vittima, giudice, parente del colpevole, avvocato della difesa……e siamo lì per vedere e giudicare. Ma chi siamo noi per farlo?
La storia del nostro omicida è intrisa di abbandono, scherno, odio, indifferenza; come si fa a non urlare il proprio dolore di fronte a tutto questo, a non chiedere amore, a non uscire di senno?
La madre se ne va di casa e muore in un incidente stradale quando lui ha solo due anni; lo cresce un padre brutale e meschino che lo disprezza, lo picchia, lo umilia, e gli ripete che doveva morire insieme a lei.
Lui lo odia per tutto questo, ma allo stesso tempo lo ama perché è suo padre e non può farne a meno; è troppo giovane in quegli anni per staccarsi da lui, per lasciarsi alle spalle tutto e smettere di chiedersi perché non sia amato, alleggerendosi del carico psicologico della responsabilità per quella situazione.
In una vita segnata dall’indigenza, l’unico oggetto prezioso in casa e a cui lui si lega profondamente è l’orologio di famiglia, cimelio tramandato da generazioni e che diventa il simbolo dell’amore paterno che gli viene negato; un giorno sarà suo, e questo testimonierà il fatto che, in fondo, un legame fra i due uomini esiste.
Sarà questo oggetto simbolico la ragione del suo crimine il giorno in cui una giovane prostituta incrocerà le loro vite; in quel momento, e su di lei, lui sfogherà tutta la sua rabbia, la frustrazione e la disperazione per il devastante rapporto con il padre. Quanto si può definire carnefice, allora, e quanto vittima delle circostanze?
Dopo 20 anni di carcere è arrivato il giorno della sua esecuzione, ma non c’è vittimismo nelle sue parole; anche nel terrore e nello strazio del momento, lui si assume le sue responsabilità. Ha ucciso.
Chi non si assume le proprie, invece, è la società, che punisce perché sono state trasgredite le regole sulle quali essa stessa è stata fondata, e non accetta il fatto che questi siano proprio i suoi figli, quelli più disagiati e che agiscono per disperazione; il loro comportamento non è che il risultato dei suoi condizionamenti.
Cosa ci resterà, alla fine, di quest’uomo e della sua esistenza? Un’ombra, che andrà ad unirsi a tutte quelle delle persone che sono state giustiziate, e che sarà lunga quanto gli anni che ancora avrebbe dovuto vivere se fosse morto di una morte naturale.
Il momento è giunto, e da pubblico di uno spettacolo teatrale diventiamo spettatori di una vera esecuzione che viene proiettata su uno schermo; il condannato è molto giovane, l’espressione è come stupita, non si rende quasi conto di quello che sta realmente accadendo. Le immagini sono forti, ti toccano dentro.
Torno a casa commossa, felice di questa esperienza e non posso che ringraziare attore e regista per questo emozionante lavoro e Amnesty International per il suo instancabile impegno nella difesa dei diritti umani.
Olga Bordoni
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