Recensione: “Erano tutti figli miei”

figli
foto Laila Pozzo

Se vogliamo dar retta al buon vecchio Aristotele, la felicità è eudamonia, ovvero un buon demone. Ma questa borghesia americana raccontata da Miller, che si candida, come non mai, a proiettarsi nella contemporaneità e oltre, non riesce a trovare il suo buon diavolo. Si presta a far parte di una sorta di Wunderkammer, di gabinetto delle meraviglie, dove possiamo immaginare un silenzioso e attento Freud come primo spettatore della vicenda. Non più Atridi, non più Argo o Tebe: qui il destino si gioca secondo le regole dell’American way of  life, e gli dèi sono sempre quei cinque pezzi facili, quei cinque dollari impassibili, nell’impermanenza di tutto ciò che li circonda.

Il drammaturgo, un ispirato Miller dalla musa tragica Melpomene vestita apposta per il martini dry serale, solleva il tappeto borghese, mostrandoci tutta la polvere di una morale da dinner jacket, mentre l’etica è un tafano socratico, portato avanti dalla generazione dei figli. Qui le Erinni, in cerca, disperata e angosciatissima. di una giustizia, sono i giovani usciti dalla seconda guerra mondiale, con le caviglie slogate per aver camminato con i coturni in forma di scarponi militari. La verità non arriva subito, si spilla, come fa il buon giocatore di poker quando apre a ventaglio le sue carte. L’industriale Keller ha una legione di scheletri nell’armadio, ma the show must go on, anche quando gli si fanno partorire certe verità che fanno male come un parto complicato, senza la redenzione di una epidurale. Socrate, tra il cemento americano, respira male, ma riesce ancora a pungere, e a far dire come il profitto abbia liquidato, con una telefonata, qualunque principio etico. Gli affari sono affari anche quando puzzano di zolfo, e di siderurgia aerea americana della seconda guerra mondiale.

L’autore riesce nel miracolo di realizzare una sovraimpressione fotografica perfetta, sulla falsariga di quelle di Duchamp, tra Brecht  – spietatamente efficace –  con le sue dimostrazioni sociali more geometrico, e il mèlo americano; quella vertigine dei sentimenti, superalcolico cardiaco che, gradatamente, scalda le teste, traducendosi  in una sbronza ora triste, ora cattiva. Nel patio circondato da un bosco, Cechov a stelle e strisce non ha più ciliegi da tagliare; rimangono, però, le lingue, più affilate di asce. Elio De Capitani, efficace Doppelgänger regista/attore, offre tutta la sofferenza trattenuta di un capitano d’industria orfano di Moby Dick; il suo Joe Keller mente sapendo che la menzogna, citando Brando, è un unguento sociale, in grado di far girare i meccanismi di un’economia senza regole e senza scrupoli. Cristina Crippa, nella parte di Kate Keller, moglie del magnate, si destreggia meravigliosamente tra i sussurri e le grida, esprimendo il sentimento di una lucida e tragica follia.

Angelo di Genio è Chris Keller, un figlio con più ricordi che se avesse, baudelarianamente, mille anni, e con  una supernova di James Dean pronta a esplodergli dentro. Caterina Erba, nei panni di Ann Deever, è un’Ofelia che non se ne va in convento, ma è lì, col motore acceso, ad aspettare il suo Amleto. Marco Bonadei,  come George Deever, ha i pugni nelle tasche sfondate, e una voglia di gridare la verità che gli mangia l’anima. Nicola Stravalaci e Sara Borsarelli, Astrov wasp anni ‘40 e consorte, sono i giusti stimolanti della vicenda, i raisonneurs pronti a far accendere la miccia. Michele Costabile e Carolina Cometti sono i coniugi Lubey, così puri che puoi vedere, attraverso di loro, il principe Myškin, impossibilitato ad attraversare la strada nel traffico frenetico delle avenues. Nel finale, Edipo non riesce a staccarsi dalla sua Giocasta, e dalle mille luci di questa Tebe a stelle-e-strisce. Buio. Applausi.

Danilo Caravà

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