Quanto tempo si può misurare, o immaginare, all’interno della propria vita? Quanto se ne nasconde, all’interno del tempo misurabile dal proprio esserci? Come in un gioco di matrioske, gli attimi, in questo Zio Vanja, nascondono dentro di sé, in un interminabile gioco frattalico, altri attimi. E il tempo evocato si estende fino a migliaia di anni, abbracciando idealmente l’inafferrabile misura cronologica di interminati eoni. Il segreto di questo testo cechoviano risiede nel tentativo, da parte dei personaggi, di opporsi allo scioglimento degli orologi alla Dalì, vivendo tutto il dramma di una temporalità legata, fatalmente, al fenomeno della vita cosciente, come ricorda il filosofo Heidegger. Lo sanno bene i due registi, Syxty e Orlandini, che trovano come scenografia, anzi come intero spazio scenico, una sorta di bolle temporali, una per ogni interprete. Si ha l’impressione che i personaggi paghino una sorta di contrappasso per la vita non vissuta, ritrovandosi in un’eterna coazione a ripetere. Cercano disperatamente di divincolarsi, di liberarsi dalle corde e dai lacci di un tempo loro imposto, che li piomba tutti, costringendoli a permanere in una sorta di anticipazione dell’inferno sartriano, legati patologicamente a vicenda, bloccati in un tragico girotondo. La sentenza dei Minima moralia di Adorno è la migliore sintesi dello spettacolo: la vita che non vive, ma si ribella al piombo che la costringe a stare ferma, come la farfalla dell’entomologo, che sbatte le ali pur essendo immobilizzata dallo spillo.
Ognuno cerca un diverso luogo deputato, sulla scacchiera scenica. Ognuno vuole cambiare almeno la posizione, propria e degli oggetti, nell’illusione del falso movimento. Ognuno ha la propria reazione alla cattività esistenziale cui è costretto. Ecco: il doloroso dinamismo, il tentativo di uscire dall’impasse della parola, sono certamente la felice intuizione di questa messinscena, che proprio sta scomoda sulle poltrone del languido melancolismo. Il tentativo di azione (comunque destinato a fallire, come nella migliore tradizione della tragedia sofoclea) è una sorta di intento ribelle, a volte deliberatamente deviante, alla sordina dell’abitudine e della reiterazione, alle virtù papaveracee del ripetersi delle cose, nel tempo sublimato del cerchio. Non è un caso che, alla fine, zio Vanja rubi proprio la fialetta di morfina. Desidera di nuovo anestetizzarsi, vivere in uno stato di trance,in cui possa non accorgersi del 95 per cento di vita montaliana non vissuta. Gli interpreti cercano, con determinazione una dimensione di profondità spaziale: occupano, oltre al proscenio, la prima parte della platea, chiamando in causa gli spettatori, nel loro gioco al massacro del tempo. Pietro De Pascalis, zio Vanja, è il riuscito doppelgänger, l’Hyde immalinconito, di Falstaff. Un personaggio shakespeariano cui è stata negata l’azione, e che deve giocarsi il suo testo. Le parole hanno una vitalità estrema: quella che la sua vita non possiede. Egli ricorda, più di tutti gli altri, il peso di esistere, zavorra spirituale che si sublima inversamente, somatizzandosi in zavorra corporea. Gaetano Callegaro gioca il ruolo del Professore in una direzione felicemente contraria alla consuetudine.
Riesce a regalare al suo personaggio lo statuto di Malade imaginaire; contiene in sé la summa della psicopatologia del quotidiano, della nevrosi dell’inerzia. Margherita Cavieziel, Elena, porta in dote, alla sua vocalità, lo stridio del gabbiano, per una libertà arrivata allo scacco matto. Potrebbe diventare un’ideale Anna O. freudiana, pronta ad alzare il tappeto esistenziale, mostrando tutta la polvere dell’inconscio. Maurizio Salvalalio è un Astrov biomeccanico, un dispettoso Puckadulto, pronto a soffiare un po’ di pulviscolo magico sulla polvere del tempo. Anche qui si segue una strada altra, rispetto alla lunga teoria di Astrov come stanchi seduttori, visti e recitati al ralenti. la Sonja di Debora Virello ha l’emergenza di un sentimento totale; un cuore che, decisamente, rifiuterebbe l’inverno per un’altra stagione primaverile. E’una ribellione vissuta dentro, recitata per sfumature, coinvolgendo una parte fondamentale, seppur nascosta, dell’iceberg. Fernanda Calati ha doppio ruolo: Balia, felicemente risparmiata dalla senilità patologica della tradizione ermeneutica, e incarnazione epica, brechtiana, delle didascalie che annunciano scene e accadimenti. In sintesi, va decisamente lodato il riuscito tentativo di trovare vie inconsuete di interpretazione, del testo e dei suoi personaggi.
Danilo Caravà
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