Recensione: “The end”

the end

Che cos’è la fine? A cosa fa riferimento? Come ci si prepara? Le domande che nascono dopo aver partecipato alla performance The End – un altro modo per dire la fine del collettivo Strasse, con la regia della Olandese Lotte Van Den Berg, sono moltissime. Non ci sono soluzioni, nessun racconto, nessun performer nel senso classico del termine. Lo spettatore viene calato all’interno di un’attesa strecciata e amplificata in cui esso stesso diviene attore.

La performance fa parte della prima edizione di FOG Triennale Performing Arts, festival internazionale dedicato alla contaminazione e alla multidisciplinarietà, dal 9 di marzo al 5 aprile 2018. L’idea è quella di porre l’attenzione sulle nuove contaminazioni dell’arte, difficilmente etichettabili come solo teatro, solo cinema, solo performance o danza.
Quello che nasce sono nuove forme di arte totale senza limiti o mezzi espressivi predefiniti.
In questo contesto ben si posiziona l’esperimento sociale del collettivo Strasse, fondato nel 2009 da Francesca De Isabella e Sara Leghissa, in collaborazione con Lotte Van Den Berg e l’attore Benno Steinegger. La consulenza drammaturgica è di Valentina Cicogna e Marco D’Agostin.

the endSpesso ci aspettiamo che la fine debba essere per forza qualcosa di importante. Una forza trascendente e filosofica. In realtà, come sanno ben esplicitare in questo lavoro, la fine può essere qualsiasi cosa. Ogni istante finisce. Azioni semplici, quotidiane. Ogni volta generano qualcosa di nuovo esattamente come la fine più grande tutte e forse quella che più ci coinvolge, la nostra.
Nel percorso della compagnia si evince da sempre il mix tra spettacolo e cinema come filtro di osservazione della realtà e trasformazione delle aree urbane. Così tu, spettatore e performer, insieme a loro, per un momento esci dalla partecipazione attiva della vita e i tuoi occhi diventano punti macchina in movimento che scrutano e registrano un film che mai nessuno vedrà. Che serve ad astrarti dal reale per spingerti a cambiare la percezione ed il modo di guardare anche le cose apparentemente più banali. Cambia il significato. Diventa altro.

Durante questa esperienza vieni caricato e preparato a vivere in modo completamente diverso un ultimo finale. Lungi da me dire cosa. È giusto che lo si scopra e in fondo non è poi così importante.
Credo che il fulcro di tutto sia la costruzione di una ben congeniata improvvisazione che, ti spinga a scoprirti osservatore per porti al di fuori dei giochi e scoprire una diversa percezione del tempo.
Una bella sfida che sicuramente consiglio di accettare con ironia e senza pregiudizi.
Lasciandosi guidare.
Un solo dubbio in questo gioco fortemente intellettuale: Quanto in astratto ci si può spingere prima che l’interpretazione smetta definitivamente di avere a che fare con l’azione per diventare speculazione concettuale?

Michele Ciardulli

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