Recensione: “Strage”

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«Il teatro è una merda, uno sputo, un piscio. È a questo piscio che mi sono consacrata, a questa merda d’artista, e mi sono elevata ad artista di merda. Umiliandomi, ovviamente. Mangiando merda, il mio corpo è diventato merda. Ed è questa merda umiliata, straziata e offesa che offro come mia opera ultima, pezzo di merda schiacciato dalla propria insignificanza. Voi siete la scarpa, noi gli artisti umiliati che per restarvi addosso ci trasformiamo in merda e ci offriamo alla vostra suola per farci poltiglia.»

Con una doccia fredda al sapore di nichilismo, la drammaturgia di Sofia Bolognini ci sveglia estremizzando la dedizione di una pazza regista infervorata per quello che per lei non è solo un lavoro, bensì una missione: portare qualcosa di nuovo sul palco. Questo estratto di uno dei convincenti monologhi di Giorgia Narcisi funge da overture per uno spettacolo dalle tinte amare e profondamente ciniche, votate a una rassegnazione lavorativa che ossimoricamente riesce a svelare l’attaccamento della drammaturga ad una speranza che le cose possano cambiare.

“Il teatro è una merda”, dice la Narcisi, vestendo i panni di una regista all’apice della sua carriera durante la rappresentazione di St(r)age, spettacolo andato in scena il 15 settembre 2018 al Piccolo Teatro Grassi, all’interno della rassegna Tramedautore, che ha visti coinvolti numerosi allievi dell’accademia milanese Paolo Grassi.

La Bolognini cammina con scarpe col tacco su una corda sospesa nel vuoto e riesce a non cadere, portando da una sponda all’altra con successo la testimonianza e il grido di protesta verso un sistema chiuso, di nicchia, che non funziona. Irrigidisce e sprona a non chiudere gli occhi, spiattella davanti ai visi fruenti una realtà, un dato di fatto forte: gli under35 stanno facendo fatica ad emergere nel nostro mondo, nel panorama del teatro italiano. Se sei un emergente, dovrai lottare, molto probabilmente contro un/a regista stronzo/a e contro tutta una lunga serie di attori che non ti renderanno la vita facile perché loro sul piedistallo ci sono già e non lo mollano, non per te. Perché dovrebbero farti posto, quando possono buttarti giù, senza che nessuno se ne accorga?

Questa è l’atmosfera di St(r)age, che emerge tramite due diversi piani temporali che si intrecciano e si alternano continuamente. Abbiamo un presente, in cui il teatro non esiste più e non ci si ricorda cosa sia un attore, e un passato, che rappresenta la nostra contemporaneità, che vede la sadica regista tentare di mettere in piedi uno spettacolo con l’aiuto di due divi narcisisti e un attore emergente, uno stagista, che viene costantemente schiavizzato da tutti. L’alternanza temporale svela un what if in cui si immaginano i rischi a cui potremmo arrivare a causa della disattenzione sociologica nel nostro presente: la regista non c’è più, è diventata una pazza isterica, mentre al posto dei divi abbiamo un’indovina e un fallito e nei panni di quello che una volta era lo stagista, ora c’è un uomo assimilabile ad uno scarto.

La meticolosità con cui sono state selezionate le categorie sociali è dovuta alla lunga e abbondante ricerca sociologica che il collettivo bologninicosta, con il progetto CANTIERI INCIVILI, ha articolato, sviscerando una lunga serie di saggi, interviste e proponendo una contaminazione con altre arti visive. Anche le musiche, composte da Dario Costa, musicista e aiuto-regia, hanno aiutato in maniera accurata e suggestiva a miscelare i vari piani, quello dello studio e della ricerca, quello della polemica sociale e quello della performance vera e propria. Una grande mole di lavoro, che purtroppo è sembrata a tratti quasi proprio il punto più debole dello spettacolo, suggerendo talvolta l’ipotesi che lo studio fosse anche troppo rispetto al punto che era stato mirato, lanciando un carico eccessivamente pesante per arrivare con potenza e precisione all’obiettivo che si voleva raggiungere, quello di sensibilizzare.

E così, in un eccesso informativo, si è perso anche il senso del prefinale: un’orgia che ha coinvolto tutti gli attori, per svariati minuti, simbolo del massimo climax in un’atmosfera di follia, ma purtroppo non adeguatamente giustificata per passare inosservata, non riuscendo ad amalgamarsi bene col resto della drammaturgia.

Nonostante questo momento sottotono, il finale, che ha coinvolto in prima persona gli spettatori, è stato gradevole e molto riflessivo, lasciando un sentore di ottimismo nella bocca dei fruitori.

Jasmine Turani

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