
Pino Daniele cantava di Napoli come un sole amaro, una carta sporca della quale nessuno si cura, come una città dalle mille paure che tutti conoscono, ma dalla verità insondabile. Parafrasando così il cantautore, si coglie parte della disperata poesia di “Scannasurice”.
Lo spettacolo preleva parte del repertorio recitativo della commedia partenopea popolare, utilizzandone i toni e i ritmi, e li mescola alle caratteristiche del monologo tragico, fatto di lunghe pause silenziose, abbassamenti di toni e di catarsi. Commedia e dramma dialogano in un testo che preleva l’assurdo dal reale, e, grazie a tale operazione, ce lo rende palpabile: il montaggio delle scene è dato, infatti, dalla caleidoscopica follia di Scannasurice, tramite una narrazione sintatticamente studiatissima.
Il protagonista ci fa infatti saltare avanti e indietro nel tempo e nello spazio, parlandoci degli abitanti della città: la sua figura si mostra in tutta la sua umanità universale e ci porta a pensare che Scannasurice sia stato in tutti i tempi in cui Napoli ha avuto vita.
La sua storia ci parla dei fantasmi del capoluogo campano, quelli che la infestano, ma anche di quelli che, spiritualmente, le stanno accanto. Davanti a noi sfilano i nobili Borboni, dei quali si parla con nostalgia passatista, come se Napoli fosse stata, in quel periodo, una bambina che sogna, lontana da tormenti. Queste immagini sono accostate anche ai ricordi d’infanzia del personaggio: il ritmo della narrazione è dato anche dalla rievocazione dei giochi di strada e di nenie lontane. Ci parla di una città che accoglie, ma anche di quella che ha scordato; di chi si sposta e di chi è rimasto.
Folklore, storia e critica sociale, insieme all’attenzione di Cerciello per l’uso dei simboli sacri e profani, cristiani e pagani, ci danno un’immagine precisissima del volto del femminiello: simbolo di questi elementi fondamentali nella tradizione napoletana, è però lasciato solo tra le macerie del terremoto dell’Irpinia. Non ci sono altri personaggi in scena. Scannasurice è l’identità di Napoli, scossa dal sisma. Il monologo arriva infatti fino al presente della narrazione, gli anni ’80, e parla dello stato di abbandono sociale dei Quartieri Latini, successivo al catastrofico evento. Il tremendo bilancio, che registrò quasi 9000 morti, altrettanti feriti e 280.000 senza tetto, mise in luce la reazione tardiva dello Stato, lontano e assente. Moscato ricorda l’orrore di via Stadera, l’ingiustizia naturale del “boom-boom-boom” e quella portata avanti dagli uomini. La metafora dei napoletani, all’interno dello spettacolo, è quella dei topi che vivono tra le macerie insieme a Scannasurice, mentre qualche studente passa loro davanti, distante.
Lo spettacolo ci mostra una Napoli fragile, sola, ma anche impetuosa e caotica: Imma Villa diventa la magica cartina tornasole di questa varietà di stati d’animo. La sua cifra stilistica unica, minuziosa, è fatta di piccoli e grandi gesti, studiatissimi e tra loro integrati. I moti dell’animo cambiano con un piccolo movimento di anca, una mano piegata insofferente o ironicamente verso l’alto, un’alzata di spalla. L’attrice striscia e diventa parte della struttura pericolante; è inquietante e vitale, statuaria e fragilissima. Passa da creatura religiosa, a prostituta, a essere bisognoso d’amore, a folletto dissacrante, piegando semplicemente il collo. I costumi di Daniela Ciancio diventano suoi compagni: parla ad una parrucca, usa una scarpa come telefono, rende gesti eccentrici completamente naturali.
Il napoletano di Moscato, grazie ad Imma Villa, ne esce arricchito: quando necessario, scalpita e graffia; ma diventa anche sussurro o squittio, e l’attrice ne fa risuonare le note sottili. Nei momenti più drammatici, la sua voce diventa corposa e nostalgica. La musicalità della lingua dialoga perfettamente con le sonorità partenopee di Paolo Coletta e i suoni ad opera di Hubert Westkemper. La recitazione e suoni ovviano anche al fatto che buona parte del pubblico del Piccolo Teatro Grassi non conosce e poco comprende il dialetto: questo è sintomo di un lavoro di troupe ben orchestrato e oleato.
Come la recitazione rima con la lingua, la minuziosa illuminotecnica di Cesare Accetta cammina insieme al personaggio, creando tagli fotografici e mostrandoci gli occhi sbarrati di Scannasurice in mezzo all’oscurità. I bui teatrali diventano parentesi emotive dell’ondeggiante testo di Moscato. Questo oscillare, evocato anche dall’ubriachezza di Scannasurice, prende corpo nelle scene di Roberto Crea, che crea un inquietante edificio, un avvoltoio di lamiere. Alla fine della rappresentazione, Imma Vilma ne esce splendida, elegante e sorridente. Si bacia le dita, si inchina e sfiora il palcoscenico, e, fra gli applausi, cala il sipario su una Napoli di topi e tarocchi appesi a un filo.
Irene Raschellà
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