Ci sono immagini che riescono a restituirti subitaneamente il cuore di uno spettacolo: improvvise, come il satori del buddhismo zen, la rottura del secchio, l’intuizione immediata. Nel caso di questo lavoro teatrale, senza dubbio, tutto questo è espresso visivamente dalla Callas. Sulla base di una colonna, torreggia con oro bizantino, quasi fosse uscita da un quadro di Klimt, per esprimere nel corpo tutta la quintessenza dell’anima che, dentro, si dibatte. E la voce registrata della diva è la chiave di lettura per la regia di Oliva: come la soprano prendeva tempi, fiati graffiati, roridi di sangue attinto dritto dritto dal cuore, così fa il regista nell’imbastire questo spettacolo. Contraltare della Callas, suo doppio, è un Pasolini tormentato, che batte nervosamente sulla sua macchina per scrivere, cercando la rincorsa meccanica, marinettiana, dei suoi pensieri. Porta in giro sulla scena, con un meraviglioso imbarazzo, anzi pudore, il suo corpo. S’agita nel verbo come una rana di Galvani, fa da sicuro specchio dell’anima alla sua Musa tragica, la sua Melpomene, in grado di ispirargli la versione cinematografica di Medea. Ed è proprio nelle vesti di Giasone e di Medea che si ritrovano, a un certo punto, a relazionarsi i due protagonisti, giocando il loro gioco serio della recitazione, al punto che, parafrasando Pessoa, fingono che sia dolore il dolore che sentono veramente.
Si parlano a distanza, si toccano, si cercano; sembrano esprimere, sia l‘uno che l’altro, l’eterno travaglio di ogni coscienza, alla ricerca dell’identità, nel paradosso dello specchio dell’altro. Pasolini, a tratti, sembra quasi un personaggio brechtiano: un uomo che sperimenta, prima di tutto su se stesso, i teoremi esistenziali e sociali, un poeta in grado di trovare sprazzi di luce lirica persino nei cementificati paesaggi della suburra. Sono generosi i due interpreti, e fanno gioco di squadra, stimolandosi l’un l’altro, sostenendosi, rilanciando la posta della loro recitazione. Ma, ancora una volta, è nei soffiati, negli adagio musicali, in certe pause, in certi interstizi vocali che si nasconde un senso profondo, un sommesso grido di due anime, che fanno fatica ad abitare una vita troppo stretta per le loro ali angeliche. Il momento dell’intervista – in cui la videocamera diventa quasi un senso ulteriore, una protesi oculare in grado di vedere l’invisibile, andando nei più profondi e reconditi luoghi dell’anima – ritrae Pasolini nel ruolo di cameraman-Socrate, in grado di far partorire alla Callas le verità, i silenzi, i sorrisi amari, le paure, le insicurezze, le rabbie, insomma tutte le sfumature cromatiche di una creatura che si fa conoscere come un’orchestra di stati d’animo. Gea Rambelli dona alla sua Callas l’immediatezza: si lascia essere nel personaggio, si muove leggera, evita la trappola della sordina reverenziale, accettando la sfida di esprimere la parte più autentica, più vibrante, e insieme straziante. Canta cercando, nella sua voce, quello stesso intensissimo, feroce scavarsi nel ventre, al di là del diaframma e della stessa carne, in cerca della più pura essenza del proprio io.
Stefano Tosoni è un Pasolini onesto, sincero, umilmente al servizio del suo personaggio, in grado di cogliere ogni gesto psicologico; in primis, quello di sistemarsi gli occhiali scuri, eterna maschera, per difendersi dagli sguardi del mondo. Parla, o meglio, si lascia parlare dalle parole di Pasolini, abbandonandosi a quella corrente, quello stream of consciousness che si muoveva eternamente nel poeta. Alberto Oliva lavora di cesello, rifinisce le molecole delle scene, fino all’atomo del singolo gesto; si può notare, in controluce, tutta l’attenta opera di oreficeria registica, in grado di restituire al pubblico il lavoro, al pari di un gioiello. E’ presenza sicura, un Lare familiare, una sorta di nume protettore della casa teatrale. La scena della morte di Pasolini diventa una frammentazione stroboscopica: una luce continuamente spezzata diviene efficace metafora del suo tragico destino, mentre il corpo si contorce come una devastante marionetta biomeccanica, in un rito atavico in cui, per l’ennesima volta, si sacrifica il capro espiatorio, in remissione dei peccati di tutta la comunità. A questo punto, la Callas non può che costruire plasticamente una Pietà michelangiolesca, vestendosi, ancora una volta, di Medea, di tutto quello spirito che dentro le ruggisce. La voce di Pasolini chiude, giustamente, lo spettacolo, per riportare la platea all’esattezza di una memoria scenica che è anche memoria storica. Giusto un istante prima che gli spettatori liberino un catartico applauso, in cui vive un duplice omaggio: agli attori, e ai personaggi reali da essi interpretati.
Danilo Caravà
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