Recensione: “Pheraps all the dragons”

pheraps all the dragons

Un silenzio denso di curiosità e aspettativa precede l’ingresso degli spettatori in una sala che sala non è. Lo si percepisce dalla titubanza nell’incedere di ognuno nel momento in cui mette piede dentro questa navicella ovale che il collettivo Berlin ha pensato per la loro creazione Perhaps all the dragons. Loro sono i fondatori Bart Baele e Yves Degryse; la navicella ovale è una struttura legnosa che somiglia, per forma, allo scheletro di un galeone, e per contenuto agli uffici di un call center. Un unico tavolo percorre il suo perimetro, su di esso trenta schermi, a ogni schermo una sedia numerata.

Nella scelta del posto ancora titubanza. Se trenta schermi corrispondono a trenta contenuti diversi, con quale criterio devo sceglierne uno? Sembra essere questa la domanda che aleggia. Il caso, sarà la risposta. Allora ognuno prende una postazione, e aspetta, e si volta per guardarsi intorno. Perché per come la struttura è concepita, tutti danno le spalle a tutti, tranne che alla persona sullo schermo. A poco a poco infatti, altrettante trenta persone sembrano entrare, proprio come noi spettatori in carne e ossa, in questo spazio piatto e virtuale che sta di fronte a ognuno. Spostano la sedia, si accomodano: lo schermo conquista profondità e consistenza. E voce. Ognuna delle trenta persone virtuali, una diversa per ogni schermo, inizia a parlare col suo interlocutore reale. Il sistema audio è impeccabile, concepito per far sì che ognuno senta perfettamente la voce proveniente dal proprio schermo, senza escludere dal proprio campo sonoro le voci circostanti, al contrario di quello che sarebbe successo indossando delle cuffie. L’effetto è piuttosto quello di trovarsi in mezzo a una sala affollata e piena di chiacchiericcio. Dopo i minuti di silenzio precedenti, questo tappeto di voci dà all’orecchio un conforto, una rassicurazione: nessuno è più da solo, siamo tutti immersi in una conversazione, tutti stiamo facendo la stessa cosa, ascoltiamo, partecipiamo.
Perhaps all the dragons fa parte di un ciclo non ancora concluso chiamato Horror Vacui. Il collettivo artistico approccia ogni lavoro con strumenti ogni volta diversi; costante è solo il loro sguardo documentaristico, e la scelta di prendere sempre come punto di partenza una città o una regione del mondo. Il loro nome infatti è dato dalla decisione di chiamare così, Berlin, quello che sarà un giorno il loro ultimo progetto prima dello scioglimento del collettivo. Sperando di essere ancora molto lontani da quel giorno ci godiamo nel frattempo, come spettatori di questa creazione ospitata dalla Triennale Teatro dell’Arte, una di quelle esperienze che a volerla raccontare si fatica a categorizzare. Non è solo teatro, né pura installazione, non è cinema nonostante gli schermi. Ma se fosse teatro lo definiremmo sociale, l’installazione diremmo che era antropologica, e il tutto realizzato come una docu-fiction.

Il lavoro infatti trova le basi nelle interviste realizzate a trenta persone diverse, ognuna delle quali racconta un frammento di esistenza, una considerazione personale, il dettaglio di una storia realmente accaduta. Interviste che prese singolarmente sarebbero autonome, ma che dentro la navicella ovale realizzata da Berlin diventano il frammento di una trama drammaturgica complessa. Le trenta persone virtuali tra loro si parlano, si ascoltano, si rispondono; gli schermi sono coordinati in modo tale che le conversazioni possano intrecciarsi e smettere di sembrare virtuali, creare l’illusione (e ben riuscita) che davvero stia avvenendo un’interazione tra loro, e tra noi e loro, carne- ossa e virtuale. La magia ulteriore si crea ogni volta che uno di questi monologhi-conversazione su schermo termina e ognuno degli spettatori è invitato a recarsi in un’altra postazione. Pochi secondi in cui tutti si alzano dalle loro sedie, smettono di darsi le spalle, affollano lo spazio vuoto centrale per incrociare le loro traiettorie, e tornano a sedersi. Una sintesi perfetta di come reale e virtuale possono coabitare senza che uno abbia la meglio sull’altro.

Lasciando la sala si ha l’impressione di avere fatto nuove conoscenze, scoperto cose che non sapevamo. E in questo mondo in cui è stato già scoperto tutto, ci dice Jonathan da Oxford, la grande avventura è scoprire chi abita il mondo. Ecco uno dei possibili perché a cui risponde Perhaps all the dragons. Perché forse tutti i draghi nelle nostre vite sono principesse che non attendono altro che vederci agire, solo una volta, con bellezza e coraggio (Rainer Maria Rilke).

Alessandra Pace

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