Recensione: “L’anno sabbatico”

sabbatico
Foto Fabio Trillini

La famiglia, da sempre, è il luogo in cui si consumano le trame perfette: a partire dalla casa degli Atridi, fino a quella, ad alto tasso alcolico, in cui si fa a gara per vedere chi ha più paura di Virginia Woolf. D’altra parte, come ricordava bene Tolstoj,  la felicità codificata,  tanto per intenderci, dal consesso familiare “alla mulino bianco”, oltre che banale è uguale a se stessa, riproducibile stancamente in serie. Invece l’infelicità, la polvere nascosta sotto i tappeti bergmaniani delle sempiterne scene da un matrimonio, è unica, e fa muovere veloci le dita sulla tastiera della drammaturga.

Valeria Cavalli si inventa un testo perfetto, un geniale meccanismo a orologeria in grado di togliere la maschera del perbenismo, del “fin qui tutto bene” della piccola cara borghesia da interni, che precipita in caduta libera con un bel sorriso piantato sulla faccia. Il gioco al massacro non può che richiamare, fatalmente, il dio reziano della carneficina, che sa bene come fare carne da macello di tutte le ipocrisie, di tutti i totem e tabù di questa famiglia. Capita anche che i personaggi dialoghino direttamente con il pubblico, in uno strano interludio à la O’Neill, raccontando le verità nascoste, le intenzioni devianti;  dettagli di questo zoo di vetro familiare dove c’è da aspettare a lungo il tram che si chiama desiderio, forse arriverà prima Godot. Il dramma borghese si contamina felicemente di caustica ironia, di battute che tagliano la gola ai dialoghi scontati, alle parole che hanno inserito il pilota automatico e si parlano da sole, agli scambi di battute che paiono presi dalle unit di un libro per imparare l’inglese.

Non è un caso che Ionesco, per il testo La cantatrice calva, si fosse ispirato a un libro con cui imparava una lingua straniera. La coppia scoppia, ma lo fa alla moviola: una sequenza da var calcistico, in cui ogni dettaglio, ogni frame scorre a passo ridotto, in modo che siano tutti visibili i falli della psicopatologia della vita quotidiana. E’ bravo, il regista Alberto Oliva, a far salire gradatamente la temperatura scenica, in modo che la rana del famoso racconto non possa saltare fuori dall’acqua. Costruisce un complesso teorema di ingegneristica comicità, che funziona alla perfezione, che non perde un tempo, e in cui ogni risata è proprio dove dovrebbe essere. Marito e moglie attendono la figlia reduce dall’anno sabbatico, e cominciano a boxare verbalmente, a studiarsi come due pugili, che devono capire la reciproca strategia per, allo stesso tempo, colpire e difendersi, attaccare e ritirarsi. Ma, quando arriva la figlia, il match esistenziale può esplodere in tutta la sua potenza, e stavolta, con buona pace di Neil Simon, non basterà andare a piedi nudi nel parco per aggiustare le cose. Monica Faggiani è un’alchimista perfetta dei fonemi, dei tempi scenici.

Ti prende una battuta e te la trasforma nel veloce fraseggio di uno strumento a fiato. Corre veloce Monica, ma batte ogni sillaba, lascia che la luce di ogni intenzione illumini i singoli suoni. Qui diventa la summa dei personaggi femminili di Woody Allen; mostra tutta la nervosa animosità del suo personaggio, che sfida in sveltezza le sue stesse nevrosi e sorride – dolente –  al suo horror vacui esistenziale, rassettandosi con eleganza l’anima, come quelle nobildonne del Settecento che, sul letto di morte, si sistemavano la pettinatura, il vestito e il trucco. E ha sempre un fiato in avanzo, da offrire al pubblico come un diamante purissimo. Arturo Di Tullio è un marito goldoniano 2.0, un personaggio di Molière che  si ritrova, tra le mani, uno smartphone. Attraversa efficacemente il personaggio, mantenendo una sorta di muto stupore, di curiosità epico/brechtiana, di straniamento scientifico nei confronti dei nervi, ritorti, legati e intrecciati più di un nodo gordiano. Lavora di sponda, fa splendidi assist a moglie e figlia, e, sempre per utilizzare il gergo calcistico, è uno che sa come finalizzare il gioco. Flavia Marchionni è una figlia stranita, stupita, in grado di  proteggersi dal vento verbale, impetuoso e aggressivo dei genitori. Sa spillarsi, sa mostrarsi adagio, rivelando, centimetro dopo centimetro, fonema dopo fonema,  tutta l’insostenibile leggerezza della sua anima. Non è facile interpretare un titanico punto di domanda, una serie di punti di sospensione, di non (o quasi) detti, ma lei ci riesce egregiamente. E’, perciò, meritatissima l’abbondante e generosa dose di applausi per gli interpreti a fine spettacolo, a svelare  tutti, ma proprio tutti, i rumori fuori scena di una famiglia che tenta di togliersi di dosso strati sedimentati di maschere, per riscoprire il proprio volto di fronte all’intera platea.

Danilo Caravà

Be the first to comment

Leave a Reply

Your email address will not be published.


*