Recensione: “La vita davanti a sé”

la vita davanti a sé

Ci vuole un Jacques Brel per trovare le parole giuste, per questo Silvio Orlando in stato di grazia. Ci vuole del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti , e questo attore ne ha tanto. Guarda la platea con gli occhi incantati di un fanciullino pascoliano, e, dopo un po’, ci si dimentica della sua fisicità di uomo maturo; aperte le parte della percezione di blakiana memoria, tutto appare così come deve apparire agli occhi dell’anima, infinito. Se i fiori di Cioran non si sono ripresi dallo stupore dovuto alla presenza umana, lo stesso vale per il bambino interpretato dall’attore: un essere che trasforma una storia dickensiana, giocata con l’irriverenza di una Zazie nel metrò, in un gioco serio, in uno sguardo dalla terra vista da una luna pasoliniana, attraverso le pupille di un omino che ha più ricordi che se avesse cento anni. La scenografia ricorda la magia di un circo, ma un circo essenziale, che sarebbe piaciuto a Peter Brook.

E poi c’è quella voce, di Silvio Orlando, e che voce. Liquida, barricata nel naso, costipata, insieme, di vita e di emozioni: una voce che, per statuto fisiologico, porta su di sé le foglie della fanciullezza, che sosta volontariamente tra gli scogli irregolari dei denti, che indugia incantata, sullo sciabordio salivare, nel mare della bocca. E’ una voce che passa, con agilità, dalla stanchezza, insieme esistenziale e metafisica, della vecchia prostituta che si occupa del bambino, a quella di un esserino che scopre tutte le lune che il Ciàula pirandelliano non ha ancora scoperto. Si ascolta un canto d’amore, senza un filo di grasso, senza violini o patetismi: una ricerca d’amore che diventa il centro di tutto, la verità di qualunque anima, espressa con la semplicità disarmante di un gesto. I musicisti punteggiano, con la loro magica, circense, chiassosa presenza, lo spettacolo, e ti fanno venir voglia di battere le mani, di muovere i piedi; sembrano dirti, come il Mastroianni felliniano, che la vita, malgrado tutto, è una festa, e allora va vissuta insieme.

Se il dio del misticismo ebraico conta le lacrime delle donne, a maggior ragione conta quelle di un bambino che scopre, attraverso il cinema, che il mondo può tornare, può marciare all’incontrario, può andare avanti e indietro come il rocchetto di Hans, e può riprodurre autonomamente il suo trauma del distacco, emancipandosene. Basta uno sguardo, un singolo sguardo del protagonista per salvare il mondo: è sempre quello lo sguardo, quello dei bambini che osservano l’esecuzione del prete nel finale di Roma città aperta, quello del bambino impegnato nel gioco dei pupazzi nel teatrino bergmaniano di Fanny e Alexander, è quello, attento e meravigliato, di Totò Cascio in Nuovo Cinema Paradiso. La verità dell’innocenza e della purezza che guardano il mondo senza sconti, senza maschere, e che sembrano chiedersi, al pari del sognatore dostoevskijano, se sotto un simile cielo possa esistere gente stizzosa, gente cattiva.

Ma il monito nietzschiano è lì, dietro l’angolo: l’uomo non può facilmente credersi un dio per via del bassoventre, e il riferimento scatologico diventa la traduzione scenica del famoso aforisma beckettiano: “Quand on est dans la merde jusqu’au cou, il ne reste plus qu’à chanter”. Perché la vita è fatta di questo, sa essere puttana come le umanissime prostitute raccontate nel monologo. E poi, Orlando balla. Un ballo particolare, da marionetta biomeccanica, una sua personalissima danza delle spade con la vita, una danza da Pierrot meccanico, da Arlecchino elettrico, un passo delicato pieno di poesia, quanto ogni suo singolo fonema. Che meraviglioso atto d’amore di un’ora e mezza nei confronti della platea, ci offre questo interprete. Si muove idealmente nella verticalità di quel palazzo evocato nella scenografia, percorrendo con le parole, con le intenzioni e con i gesti quei sei piani, quei sei gradi di separazione, tra qualunque essere umano, senza un’incertezza, un’esitazione, senza avere il fiatone. Ne ha di fiato di polmoni Silvio Orlando, e, alla generosità pneumologica, ne corrisponde una cardiaca. E, per una volta, la ragione, con buona pace di Pascal, può felicemente intuire le ragioni del cuore.

Danilo Caravà

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