Recensione: “La merda”

la merda
foto Marco Pavanelli

CARA MERDA, TI SCRIVO

Cara lettrice, caro lettore,
in quanti modi ti potrei chiamare, allora metti tu il nome accanto al cara/o con cui si avvia questa recensione. Direbbe Testori.
Se non credi nel prologo come forma di appropriazione, ti sconsiglio vivamente la lettura di questa recensione che, più che tale, è l’avvilupparsi di un flusso sintomatico di una realtà contemporanea in mille modi denunciata.
L’alternativa che ti offro al boicottaggio della lettura è quella di dotarti di un armamentario di pazienza, sebbene non sappia indicarti dove reperirlo.
Da qui in avanti, scegli tu. (spoiler)
“ABITUDINE. Bisogna sempre aggiungere: << è una seconda natura>>.
Le abitudini di collegio sono cattive abitudini.
Con l’abitudine si può suonare il violino come Paganini” (Gustave Flaubert, Dizionario dei luoghi comuni)

Ci si abitua a tutto, tanto che il disgusto incontra la dissipazione e da lì conosce la sua etichetta di seconda natura. Non vi è nulla di più abitudinario (o dovremmo dire naturale, fisiologico?) dell’espletamento del processo finalizzato alla sopravvivenza: riposare, mangiare, defecare. Il mantenimento dell’omeostasi proprio degli organismi viventi la dice lunga sulla nostra tendenza all’abitudine. Quest’ultima è così necessaria al raggiungimento del benessere da esser in grado di digerire anche il disgusto.

L’abitudine è una digestione, il meccanismo galeotto della semplificazione.
Ma siamo qui a parlar di teatro.
È pur vero che il teatro non può e non deve fuggire dinanzi alla semplicità, perché nel migliore dei casi la semplicità è una complessità risolta, altresì vero è che la semplificazione è detrimento di un sentimento.
La merda, spettacolo pluripremiato la cui fama precede qualsivoglia tentativo esplicativo, al suo ulteriore sold out presso MTM Teatro Leonardo, è la realizzazione complessa di una duplicità che pone dinanzi all’imbarazzo più ardimentoso che esista: la scelta. Scegliere se, quello di Cristian Ceresoli, sia davvero uno spettacolo pregnante e sconvolgente, un testo avanguardista e realmente straordinario oppure una gradevole voce distonica fuori dal coro troppo intonato e piatto, talvolta carico di no sense, che il teatro (o dovrei dire non teatro?) ha rivelato essere nelle ultime programmazioni.

Scegliere è un po’ rinunciare. Va da sé che per naturale indole antropologica quasi nessuno sia abile nel farlo. Ma nessuno in molti casi, come questo, ci chiede di scegliere. Ci arrovelliamo nella amletica convinzione che l’espressione di un giudizio consista nella definizione moraleggiante dei concetti contrapposti di buono o cattivo, bello o brutto. Tante volte la valutazione richiede solo (solo?) la costatazione di una sensazione. Questa sì, non è mai rinuncia e detrimento ma affermazione di un sentimento. I sentimenti non sono sempre e per forza un sistema binario, sono ampolle di alchimisti, accolgono fino alla reazione sostanze differenti e divergenti.

Lo spettacolo di Ceresoli è nitida esemplificazione di questa forza che tiene uniti gli opposti. Da un lato, un testo, un messaggio che per definizione fa il teatro; dall’altro una attrice e la sua prova che necessità rende il teatro. Partendo da questo ultimo polo, in scena, Silvia Gallerano regala una prova d’attrice straordinaria. La sua interpretazione trionfante risulta vincolante alla riuscita ed essenza dello spettacolo stesso. La sua prova realizza la legge prodigiosa dell’attore che, nel dar vita al fantasma mitico, prodiga la sua stessa esigenza di creatura umana. Una giovane donna disadatta, piccola ma con cosce grandi proprie delle dee sporcaccione, racconta con voce ridicola ma confortante il delirio di essere, solo essere, al giorno d’oggi. La sua verità è bellezza. “È un Dio”, direbbe il mio vicino di poltrona. Ma che ne è del messaggio, del secondo polo, quello del testo di Ceresoli? Il teatro per essere, perifrasando Paolo Grassi, deve sì chiedersi quali sono le necessità del momento storico e deve occuparsi della vita. Impresa più ardimentosa, però, è la capacità del teatro, della messa in scena di non tradire nelle parole la sua intenzione. E forse in questo vi è dell’irrisolto. Cosce, cazzo, fama sono i tre atti inscenati. Solo l’ultimo presuppone un divenire, uno sviluppo che pare non compiersi realmente se non in una indigestione.

Insomma, all’opera di Ceresoli sono imputabili onori ma anche (e con difficoltà, data la piacevolezza che accompagna una volta fuori dalla sala) dinieghi. I primi sono tutti residenti nella sua capacità di aver dato luogo a uno spettacolo in grado di creare riposo e non ozio, festa e non bieco divertimento attraverso la messa in scena di una scenografia vincente, di un’attrice prodigiosa, di un messaggio ispirato al vero.
Ma l’ispirazione al vero, e qui troviamo i dinieghi, ha incespicato nella trappola della traduzione, tradendo la resa della complessità in semplificazione piuttosto che semplicità.

La merda è una digestione. Produce un necessario processo di semplificazione che dona un senso di sazietà ma solo fino al prossimo appetito irrisolto.
Come a dire, alla prossima indigestione.

Alessandra Cutillo

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