
C’è ancora spazio per i grandi interrogativi sugli assoluti? Cosa possono dare all’uomo di oggi i grandi classici ottocenteschi? Serena Sinigaglia torna al Piccolo Teatro dall’11 al 16 dicembre, con Ivan, uno spettacolo che apre nuovamente le porte alle domande universali.
Liberamente tratta da I Fratelli Karamazov – l’ultimo capolavoro dostoevskiano e, forse, il romanzo più rappresentativo della modernità letteraria – la pièce si rivela conservatrice ed originale nella scelta di portare sul palco il monologo del secondogenito Karamazov, il figlio più intelligente e riflessivo, che ripercorre di fronte alla propria coscienza e, solo in seconda istanza, al pubblico la propria esistenza, svelando i meandri più profondi di un’anima tormentata e contradditoria. La riscrittura – affidata alle abili mani di Letizia Russo e alla supervisione di uno studioso d’eccellenza, Fausto Malcovati – pone al centro dello spettacolo il celebre capitolo de Il Grande inquisitore, racconto nel racconto, frutto della fantasia di Ivan e punto irriducibile della sua personalità, per questo assurto a nucleo generatore di un testo teatrale fondato sulla ripresa fedele di interi estratti del romanzo, tuttavia con l’obiettivo innovativo di ricostruire in modo più completo il mondo interiore del personaggio.
Al centro di una scenografica spirale di ferro attorno alla quale sono fissati fogli e carcasse di libri, il protagonista osserva con sguardo vitreo il pubblico e parla quasi da un’altra dimensione, quella di una morte fisica o, forse, soltanto spirituale e psicologica, dando così inizio alla storia della sua vita, ricostruita attraverso i momenti salienti che ne hanno influenzato il corso. Tutto ha origine dalla fatidica domanda: “Cosa è questa famiglia Karamazov?”. Fin dal principio viene presentato il destino del personaggio, colto proprio nel culmine dell’instabilità psichica, per poi ricostruire, attraverso salti temporali, il percorso che lo ha portato alla follia, a partire dall’adolescenza, dal rapporto con il dissoluto padre e il fratello Alëŝa – sua controparte spirituale – per poi giungere alla crisi nervosa e al celebre quanto eccezionale dialogo con il demonio. Fausto Russo Alesi, guidato magistralmente da Serena Sinigaglia, mostra una singolare abilità trasformistica nel ricoprire i diversi stadi esistenziali di Ivan e i vari personaggi creati da una mente straziata e contraddittoria – il grande inquisitore, Satana e il padre Fëdor – modificando gestualità, timbro e tono di voce, dando spessore e profondità ad ogni singolo carattere. Il monologo si sviluppa, dunque, nella forma di un flusso di coscienza che non segue una linea cronologica precisa: i ricordi si avviluppano turbinosamente, come scompigliati da quello stesso vortice che occupa interamente la scena, ordinati in modo solo apparentemente casuale, seguendo, invece, un criterio psicologico e sentimentale.
Il pubblico assiste, allora, ai dialoghi mancati ed impossibili tra Ivan e le diverse figure della sua vita e della sua mente: l’uomo è solo in scena, al centro del proprio universo caotico, assurdo e discorde, con i grandi ed eterni interrogativi, privi di una risposta ma sempre pesanti come macigni. Fin da giovane e promettente studente, assai precoce per i suoi ventitré anni e con una innata inclinazione alla speculazione filosofica, egli sviluppa una concezione del mondo atea e cinica, diametralmente opposta a quella del piccolo Alëŝa ed esposta proprio a quest’ultimo attraverso una sorta di manifesto, un progetto per un poema mai scritto, ambientato in una cupa Siviglia nel periodo della Santa Inquisizione. In questo luogo Cristo decide di ritornare sulla Terra ma si trova ad affrontare un ostacolo imprevisto, il grande inquisitore, un anziano cardinale, un tempo asceta, deciso a voltare le spalle a Dio, colpevole di aver sopravvalutato il genere umano, concedendogli una libertà che ha reso l’uomo schiavo dell’incertezza, del caos e dell’infelicità. Il piano segreto è, così, quello di sostituire la strada impervia della libertà con quella del facile servilismo, in nome di una felicità esclusivamente terrena. Ma questo inflessibile e tirannico inquisitore non è altro che un’astrazione della mente del protagonista, forse un’avvisaglia della follia, sorta dal rimorso e dal senso di colpa per aver istigato l’assassinio del padre, che porta successivamente alla creazione di un nuovo fantasma, la personificazione del Male assoluto, Satana. È una rappresentazione eccentrica ed originale dell’angelo caduto quella di Fausto Russo Alesi, forse sottoposto al maggiore sforzo recitativo per questo ruolo, caratterizzato da un pastiche linguistico di francese e inglese, una voce ondulatoria, atteggiamenti effemminati e alto borghesi da parassita da salotto ottocentesco (ma anche un po’ televisivo). Il tono diventa, così, comico e grottesco e la scelta della resa del personaggio si rivela estremamente efficace: fastidioso ed insopportabile per il pubblico così come lo è per Ivan, che cerca di scacciare dalla sua mente la proiezione della parte peggiore di sé, che a tratti assume le caratteristiche del padre, distinguibile dalla voce roca e alticcia e dal memorabile motto di vita – ancora oggi valido per molti uomini – «la sola cosa che conta è la fregna!». Il Male non è, quindi, un concetto astratto, ma è insito nell’uomo ed è parte di lui, perché «se il diavolo non esiste e, dunque, è stato l’uomo a crearlo, lo ha fatto a sua immagine e somiglianza».
La performance si chiude circolarmente con la domanda iniziale, forse la più importante, riguardante il genere umano e la sua natura, un quesito che non ha risposta e contemporaneamente ne ha infinite: Ivan non è solo un Karamazov ma un uomo, anzi, lo spirito umano per eccellenza, caratterizzato dalla sete di verità e conoscenza. Ed ecco che, nel periodo storico delle risposte facili, della svalutazione degli studi umanistici e del rifugio nell’alienazione, Ivan risveglia le coscienze, mostrando il potere formativo della letteratura, ricordando allo spettatore l’importanza della domanda come chiave dell’esistenza umana.
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