Bum bum Ilva Football Club: spettacolo e sfide contro il gigante d’acciaio al Tamburi vecchio
Il calcio di provincia non è e non sarà mai uno scompartimento stagno. Il calcio di provincia contiene sempre un qualcos’altro, è esso stesso un messaggio. Se poi questo calcio di provincia confina con la fornace di acciaio a cielo aperto più grande d’Italia, il messaggio, come il mezzo di comunicazione per il sociologo Marshall McLuhan, diventa anche un massaggio, pronto a rilassare, accarezzare e scuotere calciofili restii a rimanere incastonati nel sistema ed altre persone, magari all’oscuro dai percorsi della breriana dea Eupalla, ma intrepidi e sovversivi dinanzi ad ogni ingiustizia. Un campo di calcio ed una fabbrica fissa ed asfissiante, possono viaggiare insieme? Certo, è quello che rivela e racconta Ilva Football Club, in programma in questi giorni (dal 3 all’8 e dal 10 al 15 ottobre) al Campo Teatrale, grazie alla regia e drammaturgia della Usine Baug & Fratelli Maniglio, con in scena Manfredi Messana, Andrea Perotti, Ermanno Pingitore, Stefano Rocco e Claudia Russo, che liberamente danno vita al testo omonimo di Fulvio Colucci e Lorenzo D’Alò, edizione Kurumuny.
Non solo possono, ma lo fanno con un’armonia colma di curiosità e con un ritmo incalzante. Il campo principale? Lo stadio del quartiere dove incombono le acciaierie, il Tamburi vecchio, è ruspante microcosmo e nel contempo testimone fedelissimo di un sogno che è anche un’urgenza: sconfiggere il grande leviatano della produzione incessante ed alienante di acciaio, che se da un lato ha creato negli anni sicuri posti di lavoro, ha però realizzato un grande autogol, quello di reificare uomini e donne, che non riescono più ad essere individui liberi ma diventano giocoforza rotelle ambulanti di questa fabbrica mortifera, alla quale non sembrano poter dire di no. Ma le ore di lavoro sono troppe, le condizioni brutali e le inalazioni che si respirano, altamente pericolose. Allora ci sono alcuni che un no deciso, con la forza rivoluzionaria di un Capaneo dantesco, lo dicono, anzi lo vivono, o meglio lo giocano, all’interno del rettangolo del Tamburi vecchio, acclamati dal pubblico delle grandi occasioni.
Questi giocatori, la mitica Sidercalcio, sono gli unici paladini, che i tifosi hanno per evitare di fare la fine di una grossa ciminiera. Così l’estremo difensore La Carbonara, il centrocampista Andrisani ed il puntero dal senso della posizione di Pippo Inzaghi e dai grappoli di gol (capace di metterne a referto in una sola stagione ben 37 superando il record di Higuain al Napoli), l’immenso Capanò, sfidano i golia del futebol patinato e professionistico, nella coppa nazionale. Nessuna goffa Longobarda di televisiva memoria, ma una formazione cazzuta, arrabbiata, con attributi e desideri grandi così. Dopo aver fatto fuori il Lecce avanzano, ora è la volta della Lazio, battuta a tavolino, dopo che un chiodo, guarda un po’ d’acciaio, era stato trovato nella ruota del pullman…
Ora il tabellone consegna alla Sidercalcio una nobile del nord, l’Inter. E nella sfida ai nerazzurri, dove liberamente Bergomi e Mariolino Corso giocano accanto a Stephane Dalmat ed Obafemi Martins, succede di tutto. Sotto di due a zero, trovano la volontà di rimettersi a danzare il loro calcio: fatto di lotta e corse, sudate a perdifiato ed insopprimibili aneliti sociali. Ed anche di strepitosi gesti tecnici, come quando il portiere La Carbonara si ricorda di un insegnamento di suo nonno e si tuffa a sinistra, parando il rigore alla beneamata. Capanò e soci riusciranno alla fine a pareggiare i conti. I conti invece delle vite umane fatte fuori dal mostro dell’Ilva, non torneranno: spezzate o segnate, per sempre, dal timbro di quel fumo, dal contropiede di quel gas. Ma la lezione che offre la Sidercalcio è encomiabile, non farsi schiacciare da quella orribile catena di montaggio e di mortificazioni ma affrontarla, a viso aperto. Si, la classe operaia va in paradiso, e per una volta, prova a zittire l’inferno della prima industria continentale di acciaio.
Luca Savarese
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