Recensione: “Il domatore”

domatore
foto Andrea Morgillo

Non è un caso che la parola “circo” derivi dal termine greco “kirkus”, dal cerchio, forma prediletta da Dioniso, origine geometrica, pitagorica, dell’essenza del Teatro. C’è sempre qualcosa di espressionista, un accento cromatico volutamente marcato sotto il tendone, la volontà di accendere il riflettore sul limite della vita e delle sue possibilità. “Il domatore” di Vittorio Franceschi, che è anche interprete di questa piece, insieme all’attrice Chiara Degani, gronda letteralmente anima da ogni battuta, trasuda di quel liquido, insieme spirituale ed esistenziale. Il testo trova un terreno fertile sulle piste circensi, che hanno sempre avuto una particolare fascinazione per il teatro e per il cinema. Un domatore, costretto ad interrompere la sua carriera, a causa della nuova legge che interdice l’uso degli animali, accetta di confessarsi di fronte ad un’implacabile figlia ideale, giornalistica di un’Oriana Fallaci. La sfida autentica è capire chi ha in mano la pistola dialettica, ovvero chi è socraticamente maieuta, levatrice, di chi. E la risposta va decisamente nella direzione del domatore, il quale affascina, lusinga, indispone, a volte, mai comodo, mai politicamente corretto, sempre mesmerizzante, ipnotico, irresistibile.

Come un moderno aedo canta l’impossibile Iliade dei giorni nostri, trova, nelle pozzanghere esistenziali, un cielo capovolto di poesia. Sembra quasi di leggere, tra le righe, una sorta di gioco metateatrale, in cui il vieux roi del teatro francese, il regista, il re Lear, pronuncia le sue fatali parole nei confronti dell’attrice giovane. Si assiste ad una meravigliosa lezione di teatro, e che teatro! Ricorda l’approccio di Jouvet, la volontà di esplorare scientemente tutte le maschere, una dopo l’altra, per trovare la scintilla di poesia, ossia di assoluto, in ogni battuta. Il dialogo è anche profondamente pirandelliano, anzi pessoano, e la finzione è talmente finzione, da scavalcare la sua postazione, arrivando fino alla parta opposta, e diventando, in tal modo, verità. Si evoca la diade del clown bianco e dell’augusto, che fa da ossatura di qualunque coppia comica; ed i due protagonisti la incarnano, in una versione particolare, con la struggente nostalgia negli occhi per la lacrima di Pierrot e della sua Luna. E’ raro assistere ad uno spettacolo come questo, che rappresenta, anzi che incarna, un’incrollabile passione per le tavole del palcoscenico, una deviante decisione di un novello Prospero, decisamente intenzionato a non spezzare la sua bacchetta, e terminare i suoi incantesimi; anzi se li gioca tutti, fino all’ultimo gesto, fino all’ultima battuta. Il dialogo potrebbe essere tradotto come uno di quei duelli spettacolari presenti nella cinematografia “cappa e spada”, dove i protagonisti incrociano le lame, e sanno che la cosa più importante non è chi vincerà, ma quanto e come sarà combattuta questa sfida all’arma bianca. Qui ci si trova nel “dopo spettacolo”, nel regno delle ombre e degli spiriti, degli echi della serata, che sono gravidi di confessioni e di nostalgie. L’autore riesce, come un bravo giocoliere, a tenere in aria, e far girare, la verità profonda, in bianco e nero, di un Bergman, la chiassosa, divertita, ma anche malinconica e poetica, vitalità fantasiosa di un Fellini, e tutta la capacità penetrativa di ragionamento, appartenente a un raisonneur pirandelliano. Bastano davvero due personaggi a dare fuoco alle polveri, basta la dinamica essenziale, la presenza di due esseri che, hegelianamente, cercano la propria identità nello specchio dell’altro. Qui la vera belva da domare, il leone continuamente evocato, è la vita stessa, quella più scomoda, tragica, drammatica, imprevedibile, questo è il laboratorio che fa del vissuto l’arte scenica.

Non si poteva trovare metafora più efficace e scelta di ambientazione più favorevole per esprimere questa figura retorica. Anche le posizioni, i vettori di movimento, esplorano con ostinazione e determinazione tutto lo spazio scenico, visitano la terza dimensione, ed anche la quarta, tutta interiore,  insieme psichica ed emotiva. E come bravi psicoanalisti si comprende che, a volte, non è solo quello che si dice, ma come lo si dice, che fa la differenza. In certe paure, in certi occhi lucidi, in certi aracnici movimenti delle mani, o guardi rivolti a chissà quale misterioso altrove metafisico, sta tutta l’anima di questi personaggi che è leggera più degli amanti di Chagall, ed ha una voglia terribile di cielo. Vittorio Franceschi ha u suo viso antico, da patrizio romano, possiede una naturale maschera leonardesca, che ricorda quella di Mario Scaccia. Ha due occhi malinconicamente tagliati un po all’ingiù, sempre guizzanti e roteanti, pronti a grassettare, sottolineare, l’emozione del momento. Ha fonemi che sono perfetti acrobati ed equilibristi, e non sbagliano né un tempo, né una presa. Sembra di sfogliare idealmente, ascoltandolo, il testo di Tofano sulla storia del nostro teatro, assistendo a “carrettelle” ad uno spartito di fonemi, mai banale, ma vicino ad un’improvvisazione jazz. E’ un quadro che non ti stufi mai di guardare, o meglio di ascoltare. Ora e tagliente come una frusta, ora serico e delicato come i petali di una rosa. E’ pirandellianamente “uno, nessuno e centomila”, il compendio di una legione di personaggi, la perfetta sovrimpressione di innumerevoli maschere del comico e del drammatico. Sa farsi piccolo e fragile, sa anche offrirsi sull’altare del sacrificio; è in grado di mostrare il suo petto, e chiedere con uno sguardo, a un possibile Ramon della platea, di colpirlo al cuore, per mostrare, come un fiore rosso, il suo sangue di interprete. Chiara Degani è brava nel far fare un percorso insieme emotivo ed esistenziale al suo personaggio, dal ghiaccio contro cui nemmeno un Titanic nulla potreebbe, fino alle chiare, fresche e dolci acque petrarchesche, fino al vento di un’anima che si scioglie in un sorriso ed un bacio delicato, cechoviano, con cui salutare insieme il personaggio e tutto il pubblico. Il circo è tutto qui, nei numeri di arte varia di una serie di fonemi che tengono gli spettatori con il fiato sospeso, fino all’ultima imprevedibile, aristotelica, catarsi, che in questa sede si tace per evitare fastidiosi spoiler teatrali.

Danilo Caravà

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