Recensione: “Il cacciatore di nazisti”

nazisti

Parlare della tragedia dell’Olocausto è come camminare su una ferita ancora aperta della Storia: un’ecatombe su cui non si è carrucolata nessuna divinità antica, un silenzio in cui, oltre ai protagonisti, è venuto a mancare lo stesso cuore del tragos, il coro. Perché il passo non provochi ulteriore dolore, ci vogliono un piede speciale, una camminata speciale, e meglio non potrebbe esservi di quella di Remo Girone, aiutato magnificamente dal testo e dalla regia di Giorgio Gallione. Nei panni di Simon Wiesenthal, si muove lento, ma deciso, con un’andatura dolorosamente agile, Sofocle nelle tasche dei pantaloni, e i nomi che contano, che urgono, in quelle della giacca. Gli occhi come fessure, alla Ian McKellen, che danno un’acutezza levantina allo sguardo, una saggezza orientale, buddhica, sembrano fatti apposta per strizzare tutta, proprio tutta l’anima di questa storia. Le sue parole abbracciano, letteralmente, la platea, e lo fanno con la delicatezza con cui un nonno potrebbe abbracciare il suo nipotino, piano, per non far male. Il Male, purtroppo, è già contenuto nel racconto. Più che banalità, sembra un’asportazione chirurgica di cuore e coscienza.

La famosa frase di Levi, che tuona come il più terribile dei moniti: considerate se questo è un uomo, vale sia per le vittime, che per i carnefici.  La caccia del protagonista alle belve naziste è una necessaria, doverosa Nemesi di Erinni che non si possono placare; la catarsi, stavolta, è un pozzo destinato a prosciugarsi istantaneamente. L’archivio dei 22000 nomi è la testimonianza, giustamente ostinata, della lucida veglia della ragione deviata e distorta; insonnia, più pericolosa dei mostri generati dal suo sonno. La laringe di Girone, stanca, rorida di liquida umoralità, ventrale come una voce femminile da lupa, e piacevolmente calda come il sole di aprile, testimonia benissimo, e con la partecipazione di un Lear di fronte al cadavere di Cordelia, questo dolore impossibile, che non trova requie in nessuna concettualizzazione, in nessuna metafisica. I molteplici occhi sullo sfondo, illuminati da lucine sepolcrali, sono non soltanto la macabra memoria dei trofei assurdi della gratuita crudeltà di Mengele, ma, soprattutto, lo sguardo di esseri cui è stata sottratta l’umanità: fissando la platea da un tempo senza tempo,  rappresentano l’eterno monito per il futuro di qualunque epoca. La voce, a volte, un po’ si rompe, esita, si spezza, testimoniando tutta la sua partecipata umanità. Lo sguardo, fatalmente, va verso il pubblico, con l’urgenza di condividere lo stupore muto per questa atroce memoria.

Sono cronache di un inferno dell’aldiqua, di accadimenti con cui nemmeno la più devastante tragedia greca può confrontarsi. Il merito enorme, gigantesco, dell’attore, è quello di dire l’indicibile, facendo pace, o, meglio, trovando una Tregua di Levi tra i significanti e i significati. Di restituire, se non il corpo, almeno un’anima a queste povere creature, letteralmente sfumate nell’invisibile. Nel movimento, nella parola, che s’attarda volentieri per posare l’ebraica pietra del ricordo sulla terra funebre, sta tutta la capacità attoriale di costruire il testo scenico di una necessaria poesia storico-civile. Anche gli istanti sovrappensiero, le esitazioni, i bicchieri d’acqua bevuti per trovare requie nel racconto e per schiarirsi la voce, acquistano senso; si sublimano, letteralmente, in una recitazione sincera, onesta, che porta sempre notizia di sé, e di ciò che deve comunicare. Muta, senza la lingua di scricchiolii, o di onomatopeici suoni di distrazione, la platea partecipa all’antico rito teatrale. Assume l’onere e l’onore di prendere il posto del coro, e di nominare corifeo, sin dalle prime battute, l’attore. Si comprende, come non mai, quanto la parola sia molto più che semplice flatus vocis, o asettica segnaletica di significati. Qui il verbo è la carne, annichilita, dei corpi delle vittime. Ogni fonema è parte di quello spaventoso numero: sei milioni. Diventa necessaria memoria, costante, da battere e ribattere sulla macchina per scrivere della Storia. Quando si ricorda che il teatro, nelle sue migliori  espressioni, costituisce una delle più alte forme di umanesimo, si deve pensare a uno spettacolo come questo, che merita tutto, ma proprio tutto, il generoso capitale di applausi.

Danilo Caravà

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