Prendete Kant, quello della critica del giudizio, quello che vuole vedere un fine nella natura delle cose, nel gioco serio della morale, e fatelo marciare nell’inquietudine schilleriana. Poi aggiungete le salsicce, i fegatini, le viscere alle brace di Capossela; agitate ben bene, ma non mescolate, come si fa per i vodka Martini di James Bond, e avrete, in purezza, lo spirito di questo spettacolo di Sinisi. Il regista ha la capacità di compiere miracoli di contaminazioni e sintesi, di prendere la metafisica e attorcigliarla sul bastoncino del palcoscenico, per creare saporitissimi gniummerieddi di frattaglie di agnello. Se Flaubert rivendicava che, dietro a Madame Bovary, c’era lui stesso, identica cosa potrebbe fare Sinisi, che ha dato forma incarnata ad una masnada in grado di sconvolgere la scena, e coinvolgere gli spettatori. La Poetica di Aristotele la si può liquidare, serenamente, con le vestigia di una lattina di birra. Il rito teatrale è qui, tremendamente vero, ad esprimere tutta la sua bruciante urgenza, la sua caustica emergenza.
Ci si trova davanti a un quadro materico, a una pittura selvaggia, grumosa; ai colpi di pennello di un Ligabue che riproduceva mimicamente i movimenti delle sue bestie, i ruggiti, le zampate, così come fanno gli interpreti in scena. Crede, certo, in un Dioniso, in un dio del teatro, il regista, ma crede soprattutto alla sua carne, come se fosse Testori del tavoliere, capace di prendere certi accenti e cadenze e trovare, in essi, una primigenia, atavica forza tragica e, insieme, grottesca. Si possono idealmente ricostruire, da ogni gesto e parola, l’ansia, l’inquietudine, il gioco appassionato e devastante di chi li ha orchestrati, calandosi dentro quel magma, in quella terra umida, per farne percepire i sentori sinestetici agli interpreti e alla platea. Mentre un re Lear nudo vive l’eterno shakespeareano errore di valutazione, nel giudizio, più che kantiano, can’t(iano), nei confronti dei due figli, la vita ferve e si ribella: anzi, diviene masnada, per sperimentare il fuori scala, per aprire la strada al diavolo ed al buon dio di Sartre.
Mai, come in questo caso, si ha la possibilità di assistere a un classico che si scrolla, ben bene, di dosso tutta la grigia polvere di classicità. Le parole, poi, non sono semplici parole. Non hanno il pilota automatico della monumentalità tragica, non sono stancamente parlate da sé medesime; piuttosto, sono rivivificate da una coscienza, finalmente ed autenticamente, libera e attiva. Sono personaggi anch’esse, le parole, e sanno di carne e dèi, di quel grasso cotto sull’ara del sacrificio, perché potesse far venire l’acquolina metafisica a qualche lontano nume celeste, e a tutti noi spettatori insieme. Ogni interprete, brechtianamente, si presenta, annunciando la sua doppia natura di essere umano. Tutto è così, senza un patto narrativo, nel terreno di emozioni e gesti veri, come la realtà che ci aspetta ogni mattina. Non c’è più la necessità di fare un palcoscenico un regno, e avere prìncipi per attori; tutto è, immediatamente, quello che esprime, senza la necessità di pesanti ceroni, esercizi sartoriali o roboanti scenografie. Allora, ecco erompere, dall’alto, quello che resta del deus ex machina: una serie di lattine bevute e schiacciate, molte delle quali probabilmente alcoliche, come risultato di una sbronza celeste bukowskiana. E ancora, appare, sempre dall’alto, un bue macellato di tessuto, uscito dal quadro di Rembrandt, portandosi addosso la sua luce ocra, meravigliosamente giallastra e malaticcia. Perché gli dei della carneficina, cui offrire visceri in sacrificio, non mancano mai.
Dunque, nel devastante gioco delle tre carte della morale tra i due fratelli Karl e Franz, chi è davvero il buono e chi il cattivo, chi il masnadiero e chi l’anima bella? Questa è la vita, signore e signori, con tutte le sue contraddizioni, in cui i concetti etici sono scarpe che proprio non vogliono entrare, così facilmente, nei piedi della vicenda. Si può persino ballare, liberando la processione di Bacco, per consolarci, per stordirci, per darci quella sacrosantissima ebbrezza, quel brivido endorfinico lungo la schiena, che ogni spettatore si aspetta. Tutti gli interpreti, ma proprio tutti, meritano lo stesso giudizio: sono ardenti occhi della tigre poetica di Blake. Sono animali galvanici, ditirambi di Dioniso, coreografie sincopate. Sono fiamme guizzanti, e bruciano, santo cielo se bruciano, sulla lingua e negli occhi! Con generosa causticità sciolgono i sovrappensieri, ogni disattenzione. Ti fanno ridere e piangere, ti tirano certi manrovesci da lasciarti il segno sulla guancia; non c’è un momento gratuito, non c’è istante che non danzi una vorticosa taranta di fronte al pubblico. Lo spettacolo, nel suo insieme, lascia la corroborante impressione di essere la reviviscenza della nascita del teatro, da quel coro della tragedia che sa di terra arsa e rossa, di umori finalmente umani, di verità che vengono dalle viscere, emananti carne e vita.
Danilo Caravà
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