E’ meraviglioso il momento in cui il significante, che solitamente ha il fiato corto per star dietro al significato, felicemente lo incontra: questo succede nel dittico scenico di Fabrizio Gifuni. La parola torna ad essere assoluta protagonista, a fronte di un teatro che, sempre più colpevolmente, oblia la propria fonetica, potente, numinosa origine. E che parola, signori miei! Si vive, dalla parte della platea, una vibrazione che ti scende giù, giù, fino al centro della terra dell’anima; un nugolo di frecce in grado di far trasumanare, verso connotati mistici, San Sebastiano. Ogni fonema è saetta di fuoco puntata dritta sul cuore di ogni spettatore. Questa voce ha un corpo, un’anatomia, una carne, insieme, profondamente testoriani; contiene tutta la forza dinamica dell’emergenza etica, e l’affascinante, perturbante aroma metafisico di un cercato, insistente, interrogativo spirituale di somma significazione. Entra in scena, idealmente, in punta di piedi, Gifuni: come un sacerdote, un sommo sacerdote che pronuncia, nel sancta sanctorum, l’indicibile nome dell’assoluto. Spiega, con amorevole gentilezza, il perché, il tormento e l’estasi di questa scelta, difficile e necessaria, di rievocazione, o, meglio, reincarnazione di due personaggi, Pasolini e Moro, così distanti, eppure così vicini.
Condividono un destino tragico, portando su di sé lo stigma di Polinice, del fratello insepolto, vittima di una cieca tirannia, di una giustizia azzoppata. Ci vuole lo spirito antigoneo di questo attore, per tributare l’onore di una sepoltura che porti con sé non la parola fine, bensì quella di inizio. E occorre il suo corpo, in grado per sottigliezza, dunque per affinità elettiva, di raccontare l’invisibile; sembra uno di quei corpi di Schiele, capaci di torcersi, di andare al di là della propria materialità, facendo affiorare l’elemento spirituale. Pare, altresì, un derviscio, o una marionetta biomeccanica, che, con misurati ed efficacissimi gesti, gravidi di significato, riesce a regalare, alle sue parole, una danza essenziale di Dioniso. Come per un ebreo orante davanti al Muro del Pianto, tutta la sua figura diventa lingua, laringe e voce, puntate decisamente verso l’alto. Pasolini viene evocato attraverso le parole dei suoi enfants sauvages, i ragazzi di vita, una vita che guarda a se stesa prima della ragione, prima di una ideale civiltà dei costumi. Tragici, necessari, con un’esistenza immediata, elevata a potenza, sono la mitologia del sottoproletariato fine anni anni ’40: gli Adoni, i Narcisi, i Satiri, i compagni di gioco degli dèi della Tiburtina. E poi ci sono le parole di Pasolini, oracoli lucidissimi, e inascoltati, di una Cassandra che già intuiva l’involuzione della società consumistica, la pornografia dell’essere, per citare il felice titolo di un’opera di Bettera. Si ascoltano le voci di una romanità ruspante, di una pittura fonetica grumosa, tridimensionale, che è lo sguardo, l’ascolto di un altrove temporale; la vita, ancora onesta con se stessa, si esprime coi sì e coi no, coi sorrisi alla Davoli, così veri, in grado di attraversare i limiti della bocca e trasformarsi in tutto il corpo. Poi è la volta di Moro, del suo Memoriale, delle sue lettere: una scrittura lucidissima, impegnata, che segue il filo funambolico di un flusso di coscienza incessante. Il re muore, direbbe Ionesco; o meglio, sta per morire, e i suoi sensi – spirituali, intellettuali, emotivi – si acuiscono, sferzando, come frusta evangelica, un potere che ha più ombre che luci. Eccola qui la verità, tutta la verità, sul governare, sui compromessi, sulle zone grigie di fosche eminenze grigie.
Anche Moro si esprime in una scrittura densa di umanesimo pressoché irraggiungibile. Il suo essere per la morte, per dirla alla Heidegger, risveglia tutta la sua esistenzialità, l’urgenza dell’essere al mondo, e trovare, almeno sulla carta, la propria forma compiuta. E a sussurri gentili, serici, si alternano grida tonitruanti: quelle di uno Zarathustra, che annuncia la prossima morte degli dèi della Democrazia Cristiana. C’è un’energia incontenibile in queste parole, un magma che si riversa dal cratere della bocca dell’attore sulla platea , investendola. Brucia, ustiona, tiene ben aperti i lembi di una ferita della nostra storia recente, che si vorrebbe, troppo frettolosamente, cauterizzare. E come acquista forza, potenza questo verbo di Moro, capace di far terremotare le sicure incertezze di una politica fatta di minima – e maxima – immoralia. La temperatura emotiva, via via, sale; la voce, sempre più incalzante, fa i gradini del martirio a tre a tre, a quattro a quattro. Non racconta, ma vive, tutto lo spirito di una tragedia consumata in pochi metri quadri, di un personaggio eschiliano, Prometeo politico, cui i rostri d’aquila divorano eternamente il fegato, mentre uno Zeus andreottiano si gode la sua vittoria di Pirro. Quale lezione, ci dà Gifuni: si può arrivare a una dimensione essenziale di teatro, che sarebbe piaciuta tanto a Peter Brook, con un leggio, dei fogli, il perimetro di uno spazio scenico, il corpo dell’interprete. E, per finire, si ritrova una parola che, ricordando Emily Dickinson, non ci si stancherebbe mai di rimirare con il proprio ascolto, come si fosse perdutamente incantati dalla luce di una stella.
Danilo Caravà
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