Recensione: “Il fiore del mio Genet”

Genet
foto Andrea Casini

In scena allo Spazio Avirex Tertulliano, Il fiore del mio Genet – spettacolo itinerante tra i bassifondi dell’anima si propone come un particolare omaggio a Jean Genet, inquieto e inquietante poeta degli emarginati.

All’interno di un interessante progetto di ricerca dal nome La lingua degli insetti della compagnia barese Teatro delle bambole, la drammaturgia di Andrea Cramarossa si lascia suggestionare dalla poetica genettiana nella riscrittura di un testo raffinato e ricercato, per certi tratti impegnativo.

Federico Gobbi e Domenico Piscopo arrivano in scena dalla platea portando in processione un altarino. Essi sono due uccelli cinguettanti prima, ma dopo due carcerati e subito due marinai, nei racconti di storie di nostalgia e di rifiuti d’amore; e poi ladri, e ancora omosessuali. I vari ruoli interpretati dai due attori ripercorrono il labile confine tra ciò che raccontano, una vita tribolata degli affetti mancati una sentita fisicità, e come invece vengono visti e stigmatizzati dagli altri, ladri pederasta reietti e disadattati: questa è la croce che essi si portano addosso e con cui trascorrono, danzando, la vita. La recitazione dei due attori è profonda e penetra nei diversi personaggi ora a parole ora con il corpo, restituendo il testo con intensità. Su una scena allusiva gli oggetti sono simboli che accompagnano la messa in scena delle figure testuali, fondendo ingegnosamente ciò che i personaggi dicono con ciò che rappresentano agli occhi di chi guarda. Nell’allestimento scenico le musiche – ora napoletane ora francesi – acquistano una sapiente funzione drammaturgica, un secondo inciso testuale attraverso il quale si muovono gli attori.

La reinterpretazione di Genet da parte di Cramarossa si concretizza in un testo poeticamente denso e di difficile immedesimazione, che certo lascia lo spettatore colpito e spaesato ma allo stesso tempo è indice di una sperimentazione drammaturgica che merita attenzione. Cramarossa inscena più che il personaggio Genet la sua poetica che non tanto descrive quanto mette in discussione l’inconsistente morale di una società: è qualcosa di vero il confine che separa il giusto dall’ingiusto il bene dal male o è solo qualcosa che noi produciamo? Il fiore del mio Genet restituisce drammaticamente – come richiede il poeta – uno spettacolo che deve essere sviscerato più che fruito piacevolmente. In onore di questo maestro la scena si chiude sul voto dei due protagonisti reietti di fronte al ritratto dello scrittore, simbolo di una voce necessaria per gli invisibili di ieri e di oggi.

Chiara Musati

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