Recensione: “Finale di partita”

Che cos’è Finale di partita per Glauco Mauri? È «La tragedia del vivere che diventa farsa – la farsa del vivere che diventa tragedia. Un ossimoro dove convivono una risata ed un arido pianto, una disperazione senza speranza e un insopprimibile sentimento di pietà per l’uomo».

Come nei romanzi di Dostoevskij, anche i personaggi dei testi di Samuel Beckett sono portatori di parti dell’io. Che si tratti dell’io dell’autore, oppure di un io generale, che tutti accomuna, non cambia il risultato, tantomeno le dinamiche. Ci sono sfaccettature dell’essere che schierano e suddividono i sentimenti in macro-categorie che i sovracitati autori tendono ad assegnare, volta per volta, ai protagonisti dei loro manoscritti, per inscenare, in maniera primordiale e nettamente vicina al subconscio, le contraddizioni e le peculiarità dell’umano pensiero.
E così, dal 23 ottobre al 4 novembre, si sono avvicendati sul palco del Piccolo Teatro Grassi quattro personaggi che hanno mostrato le loro singolarità tratte dalle parole composite che allestiscono il susseguirsi di non sensi di Finale di partita, testo scritto da Samuel Beckett nel 1957.
Hamm non può alzarsi. Clov non può sedersi, ma ha male alle gambe.

Clov ci vede. Hamm no. Quindi Clov allunga il suo cannocchiale e gli descrive ciò che vede fuori dalla finestrella del loro rifugio antiatomico: il mare. Hamm non gli crede, ma gli chiede di continuare a guardare per lui.
Hamm vuole accarezzare il cane, Clov glielo passa.
Hamm: «Ma è finto!»
Clov: «Sì.»
Hamm: «Passamelo lo stesso…».
Pertanto, rassegnato e desideroso di un briciolo d’amore, Hamm accarezza dolcemente il cane di pezza, mentre Clov dà da mangiare un grosso biscotto ai genitori di di Hamm, Nagg e Nell, che sono nudi, rinchiusi in cassettoni estraibili dalla parete.
Questo è ciò che vediamo: l’insensatezza disturbante dei pensieri di un drammaturgo del dopoguerra che estrinseca in un contesto teatrale il crollo delle sue certezze.
Tutti i personaggi soffrono, sono accomunati dal non avere mai pace. E il loro struggimento maggiore è quello di non sapere nulla, né sul loro presente, né tantomeno sul loro futuro. È giorno? È notte? In che anno sono? Domani saranno ancora lì? Quando finisce l’oggi e inizia il domani?
Inquietudine, ricerca l’uno dell’altro e poi vicendevole allontanamento. Affetto malato, insolito, non capito. Movimenti ripetuti, movimenti non condivisi… alcuni inutili. Perché li fanno? Semplice, perché no? Per sapere se nel loro mondo ci sono regole, bisognerebbe prima capire chi sono e dove si trovano…

Hamm, intrepretato da Glauco Mauri e Clov, rappresentato da Roberto Sturno, si spostano e si interfacciano danzando in una spirale di reciproca necessità, per cui, al pari delle più grandi coppie comiche del cinema, essi non sono nulla l’uno senza l’altro. Anche se si odiano.
Nella metaforica partita a scacchi che coinvolge gli attori, si arriva a perdere il senso di un’ipotetica vittoria, presupponendo che alla fine della giornata non si sa se la loro vita continuerà o terminerà.
La volontà di Andrea Baracco, regista, e dei due attori protagonisti di riproporre un’opera complessa come Finale di partita è interessante e ci rende partecipi della volontà dei tre di tramandare una tradizione alta e ben consolidata, che è quella del teatro dell’assurdo il cui maggior esponente è proprio lo scrittore premio Nobel Samuel Beckett.

Di certo, al termine della performance, il pubblico torna a casa portando con sé il dono di un implicito spunto di riflessione sul presente. Cosa ha reso attuale “Finale di partita” ancora nel 2018?
Le mille risposte diverse che si potrebbero dare, ci conducono nella vorticosa spirale del gioco di Beckett, dove diventiamo a nostra volta personaggi incompleti in un mondo insensato, in cui non siamo sicuri di voler vivere, ma da cui non siamo certi di poter evadere.

Jasmine Turani

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