Recensione: “El nost Milan”

el nost milan
Foto Serrani

Ci vuole un verso di Saba per trovare tutta la poesia di  Milano, dove, la notte, invece che stelle, si accendono parole. E, se il sognatore delle notti bianche dostoevskijane cercava di stordire la sua malinconia girando tra le vie di Pietroburgo, al Carcano si può, idealmente, fare un giro della città rimanendo comodamente seduti su una poltrona in platea. D’altra parte, questa è una città che si lascia scoprire, spillare, proprio come affermava Stendhal, e la bellezza ti può apparire tutt’a un tratto, entrando in un portone, o svoltando l’angolo di una strada. L’anima calda, fumante, come i minestroni della mensa collettiva, del Nost Milan pervade interamente questo esperimento teatrale. L’agorà sale, letteralmente, sul palcoscenico: 150 cittadini prendono pieno possesso di questo luogo di umanissima sacralità, espressione della forma più genuinamente religiosa dell’uomo, in cui l’umanesimo è una sorta di alta e solenne preghiera.

Basta saper ascoltare oltre i rumori del traffico, oltre le parole veloci, gli annunci delle stazioni della metropolitana, per avvertire il cuore saviniano. E’ un cuore fatto di generosità, ascolto, aiuto. C’è qualcosa di morfologicamente cardiaco in questi luoghi, che pompano una buona etica nelle vene della città. Il testo scenico diretto da Serena Sinigaglia ha la forza dell’opera di Harvey, nello scoprire un sistema circolatorio parallelo, quasi perfettamente sovrapponibile alla pianta urbana, fatto di mense, di centri per l’aiuto e l’ascolto, di docce pubbliche, di periferie in cui nascono, in mezzo al cemento, meravigliosi  fiori del bene. Si viene accolti all’ingresso da degli attori che nel foyer coinvolgono il pubblico con piccole storie di povertà traghettando il pubblico come dei piccoli Caronte contemporanei. L’intuizione potente è quella di invadere il palcoscenico con una polvere sottile, e quasi metafisica: come una nebbia, che, a poco a poco, colonizza tutti gli spazi, velando il Duomo stilizzato sul  fondo, come spuma di un mare nascosto nella dura pietra cittadina. Ti sporca l’abito di scena, o meglio te lo colora, te lo vivacizza, ti entra nelle ossa, la respiri. Diventa il perfetto simbolo della croce e della delizia di questa città, il pennacchio dell’individualità di Rostand, il precipitato chimico di una voglia, di uno spasimo, di un paio d’ali compassionevoli che riescono a spiccare il volo, anche se imbrattate di catrame. E’ la vita che racconta se stessa , non per come dovrebbe o potrebbe essere, ma per quello che è, semplicemente.

Ecco, la regista riscopre una semplicità teatrale, grazie all’uso accorto di un rasoio di Occam. Via gli orpelli, via gli enti non necessari: il fine è quello di ritrovare un teatro in purezza, un gesto, una parola pienamente conscia di sé, splendidamente sporca di vita. Si succedono, uno dopo l’altro, i quadri in cui, hegelianamente, Brecht convive con i poveri di Gorkij; in cui quell’equazione irrisolvibile, quel cruccio amletico, quella polvere vivente attraversata dal mistero, si mostra naturaliter, senza la tara di una maschera barocca. Ogni fonema è una pittura materica, un odore, una sensazione vivente; ogni gesto è cucito perfettamente con la pazienza, la dovizia, la presenza e la calma di una nonna milanese, con gli occhiali appoggiati sul naso, che costruisce, inconsapevole, il suo esercizio zen. E poi c’è Lella Costa, che unisce, che fila, seta sottile ad attraversare le varie storie, i differenti racconti. Ha un modo di far sorridere le parole che è proprio suo, unico, irripetibile. Ti prende una frase e te la veste con un velo da sposa, nelle nuances del marmo del Duomo. Attinge la sua vocalità dai più remoti spazi cardiaci, dalla parte più buia e nascosta di tutte le periferie pulsanti; quella con la maggiore, struggente nostalgia della luce, il colore giusto, il suono riverberante, profondo, rotondo, caldo, vagamente maschile, un po’ grattato.

Ogni parola diventa una carezza lunga, necessaria, che ti rimane dentro, nell’anima, risuonando anche a fine spettacolo. E’ una sorta di antico aedo, che accende nella laringe un fuoco, intorno al quale la platea può scaldarsi. Tutti i cittadini coinvolti in questo spettacolo hanno, idealmente, Euripide nel cuore ed Aristofane nei sorrisi: sono l’espressione meglio riuscita con cui il teatro ritrova la sua piena identità, e in cui la platea non è stata mai così vicina, così prossima, coincidente con il palcoscenico. Che riuscito girotondo collettivo è riuscita a costruire la Sinigaglia, rubando l’essenza del testo di Bertolazzi e  permettendo allo spettatore di sentire quella verità, quell’immediatezza, percepite, quasi 130 anni fa, al debutto  del Carcano, dove, per la prima volta, uno specchio lucido mostrò, come in questo caso, la città alla città. E gli applausi, meritatissimi, sono quelli che Milano tributa alla parte migliore di sé.

Danilo Caravà

Be the first to comment

Leave a Reply

Your email address will not be published.


*