Marlowe ha la capacità di far sentire la struggente nostalgia degli dèi della tragedia, lasciando i suoi personaggi a giocarsi la partita truccata con il destino. Non fa eccezione il suo Edoardo II, che getta uno sguardo impossibile a Eschilo, ma avrebbe un disperato bisogno della voce di una Moreau, che gli canti il veleno erotico di Each man kills the thing he loves, per la sua querelle d’Inghilterra. E se Artaud, con il suo ultimo nastro krappiano, voleva farla finita col giudizio di Dio, qui si chiudono i conti con l’identità di genere, con buona pace di Aristotele; qui, le coppie mitologiche dell’essere androgino si ricompongono nel maschile-maschile, e nel femminile-femminile. In questa caverna platonica, le ombre raddoppiano e, oltre alla quaterna di attori, viene proiettato il film in costume sulla vicenda. La multimedialità, terra di mezzo tra il reale e il virtuale, perfezione sensoriale libera dall’equivoco della solidità e della terza dimensione, permette ai significati di rigiocarsi, e di avvilupparsi, come i cavi elettrici del finale sul corpo di re Edoardo, in una versione squisitamente postmoderna del mito marmoreo di Laooconte.
D’altra parte, come insegna il buon vecchio Ockham, signum dupliciter accipitur; infatti si assiste a un vero e proprio sdoppiamento, in cui l’occhio dello spettatore, abbandonandosi a una distorsione visiva, a una diplopia, assiste allo spettacolo teatrale e cinematografico. Il primo contemporaneo, essenziale, con un etica più spietata e geometrica di quella di Spinoza; il secondo in costume, muto, un irrinunciabile trattamento Ludovico della pupilla, in grado di instillare nello spettatore il riflesso pavloviano. La vicenda viene portata alla sua essenzialità; tagliata dalle camminate rasoianti di Mortimer, riduce a quattro il numero necessario perché tutto, in questa tragedia, si compia. Sullo scheletro di un talamo, troviamo il trono di un re che sa che il non sapere è più letale della cicuta di Socrate. Di fronte al dilemma tra essere e dover essere, schiacciato da un super io al quale si addice la corona più che il lutto a Elettra, si strugge e si distrugge nelle terre mobili del dubbio. Di fronte al dio di Lacan del giudizio universale, difficilmente potrebbe rispondere con certezza alla domanda se abbia o non abbia seguito la legge del suo desiderio. Si trova imprigionato nelle sue catene multimediali, nel nodo gordiano inscindibile delle significanze; di nuovo nella grotta platonica, con il dubbio di non esserne mai uscito, costretto a vedere il proprio finale nelle ombre sullo schermo. E l’amore diventa l’ultima, la definitiva hybris umana: il desiderio di trovare, disperatamente, la poesia dell’universale nella carne, nell’immagine dell’altro, finendo però con il ritrovarsi nell’ennesimo carcere di Reading, per mettere un velo puritano sui peccati carnali di ogni possibile era vittoriana.
Forse ha ragione l’Elena di Troia di Euripide, che invita a punire Afrodite per tutto qunto è successo, a non perdonare quel dio d’amore che a nullo amato amar perdona. E, se le spade trafiggono sullo schermo, in scena si impongono i colpi di un revolver, sfuggito a qualche storia cechoviana, con la voglia di essere indirizzato decisamente non sulla propria tempia, ma sul corpo altrui. In fondo, lo insegna Fisher, avere la pistola in mano vuol dire trovarsi dalla parte giusta di un dialogo socratico; e, se c’è un’arma di mezzo, e un proiettile pronto in canna, le parole si fanno dannatamente necessarie, e vanno misurate, calibrate. Ha veramente il mondo intero per nemico questo Edoardo, al quale sembra che tutto e tutti abbiano dichiarato una guerra esistenziale. Ma quella più terribile e fatale è, senza dubbio, quella che egli vive al suo interno, e che rende la corona indossata un patologico, emicranico, cerchio alla testa. Li scorpioni dentro quest’ultima non fanno certo invidia a quelli di Macbeth; contro di lui marciano non foreste, ma intenzioni devianti, forze opposte, subpersonalità che lo tirano, come cavalli imbizzarriti, in tutte le direzioni, sventrandogli l’anima.
Andrea Piazza costruisce una regia con un filo talmente tagliente, che si rischia di farsi uscire il sangue anche solo con i silenzi dei personaggi. Intorno al re vive un vero e proprio concertato contemporaneo, atonale: da una parte gli affondi verbali di Mortimer, che muove l’archetto della sua intenzione sulla laringe, con colpi precisi, netti, rasoiate da far invidia a quelle di Jack the Ripper. La moglie Isabella offre il suo controcanto straziante, che si screzia di vendetta, come un tema musicale in grado, a poco a poco, di averla vinta su quello che l’ha preceduto. Gaveston è un Alcibiade ubriaco d’amore, un essere pervaso da quel daimon, da una musica dove sono le percussioni a costruire una sorta di ritmo tribale. E poi c’è Edoardo, con i suoi dilemmi, con i suoi patimenti, che spoglia i suoi fonemi da ogni fronzolo interpretativo, offrendoci una nudità vocale francescana Soffre e si offre agli altri personaggi e al pubblico, nella spietata verità di un’anima che, via via, porta i differenti nomi dei sentimenti che la abitano. Gli interpreti si spendono al meglio in questo quartetto d’archi: Maria Canal è una regina Isabella che suona un canto d’amore vero, tradito, negato, echeggiante dei corni della musica da guerra. Giulia Amato è un Mortimer che incarna dolorosamente il suo ruolo di dovere, prigioniero, brechtianamente, del suo personaggio oscuro come l’anima buona del Sezuan. Fabrizio Calfapietra è un Gaveston tormentato più dei ragazzi di vita pasoliniani: ha braccia e gambe lunghe, e il cuore deve battere più veloce, perchè i suoi abbracci possano scaldare. Emanuele Righi fa sentire tutto il sapore di sale della sua corona; la verità dei suoi fonemi è lì, in bella vista, pronta a essere divorata dagli occhi, prima che dalle orecchie. Tutti gli interpreti meritano il generoso capitale di applausi.
Danilo Caravà
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