Recensione: “Edipo re. Una favola nera”

edipo re una favola nera
foto Lorenzo Palmieri
edipo re una favola nera
foto Lorenzo Palmieri

Frongia e Bruni hanno liberato Edipo dal vicolo cieco freudiano, da quell’empasse psicologica che lo elegge a simbolo di peccato originale psicanalitico. Il personaggio sofocleo è molto di più, anticipa ogni più filosoficamente crudele e spietato esistenzialismo, è una battaglia senza esclusione di colpi con la Necessità, con una metafisica invisibile, con una verità di cui l’eroe sconta il fatto di esserne non soggetto, ma oggetto. Si può accettare la definizione nietzschiana dell’eroe di Sofocle, come eroe passivo a patto che si intenda questa definizione nel senso etimologico del termine, derivante dal latino patior, dal “sentire” in maniera traumatica, fino a provarne dolore. E soffre questo personaggio, soprattutto nella dimensione fonetica, le parole di verità sono più fredde della morte fassbinderiana, sono lame che tagliano l’anima da ogni parte.

edipo re una favola nera
foto Lorenzo Palmieri

Questo spettacolo ha il merito di aver fatto detonare nuovamente le parole del mito, nella forme di una favola nera, di un cabaret dove si va a colpire con decisione il ventre molle dell’inconscio collettivo; si arriva fino all’orizzonte degli eventi di ogni etica, si varca da subito quella sottile linea rossa che divide l’essere umano dal suo significato. Qui l’essere dell’uomo smette di rappresentare un concetto, e abita la carne di un personaggio che inizia il suo viaggio nell’orizzontalità della polvere, scopre la regale verticalità, per poi tornare nella polvere. L’ammonimento dei Carmina Burana potrebbe contenere la postilla del tragico re di Tebe, chi si siede al vertice del potere ricordi che, sotto il trono, è iscritto per sempre il nome di Edipo. E’ geniale il fatto che, al pari dei fotogrammi di una pellicola, la realtà scorra davanti a Edipo, il tempo lo incalzi; la sabbia sulle tavole del palcoscenico è già caduta da un pezzo. ma il protagonista è una sorta di eterno severiniano che pianta i piedi e rifiuta di uscire dallo specchio dell’apparire. E’ una poesia fatta di carne e sangue, già oltre il tempo nel quale è iscritta, una scheggia di ineffabile eterno piantata nel corpo dolente dell’umanità.

Non sono gli dei qui a calare dall’alto, ma i simulacri del potere, gli abiti regali, nei quali annunciare, con indovinato straniamento brechtiano, il gioco tragicomico del governare. E Brecht ritorna fatalmente in questo lavoro teatrale, non potrebbe essere altrimenti. Il suo antiaristotelismo trova un’affinità elettiva con questa piece, dove non si vuole che né Edipo, né il pubblico trovino rifugio in una consolante catarsi, la domanda deve rimanere bruciante, deve essere qualcosa di simile al koan, quesito irrisolvibile razionalmente; una sorta di palla infuocata che brucia dentro la riflessione del meditante. Libertà o necessità? Gli esseri umani o gli dei? Casualità o causalità? La risposta va forse chiesta a quella polvere che si alza sul palcoscenico, testimone impermanente di un conflitto, squisitamente umano, permanente. Si sente distintamente l’odore, o la puzza, se la si vuole scrivere alla B ene, delle divinità, come non si sentiva da tempo negli allestimenti della tragedia. E dalla skenè, con gli antichi meccanismi del teatro greco, appaiono via via i vari personaggi. Dietro c’è l’oscuro oceano della psicologia del profondo, del senza nome. Se la dicibilità delle cose porta sempre sollievo, la fatica e il dolore di dirle, e, a volte l’impossibilità di contenerle in singoli fonemi dà alla tragedia il suo massimo potenziale. Se Antistene vedeva il cavallo, ma non la cavallità, qui si vede la tragedia e tutta la tragicità nella magnifica sovrimpressione del visibile e dell’invisibile.

Frongia e Bruni hanno avuto anche la capacità di rendere Tiresia una sorta di specchio, sfasato temporalmente in avanti, di Edipo, l’indovino nella sua tenebra visiva, anticipa quella tragica eternità di Edipo, che accecandosi, si scolla dalla successione temporale, per trovare la sensazione di un oscuro “per sempre”. Ferdinando Bruni incarna Laio, la sfinge, Tiresia,il Pastore, il Coro, ma è soprattutto la voce di questa tragedia. Dà una carne fonetica al suo dire, grondante sangue, seduttiva, ventrale, grattata, signficante che è immediatamente significato, personaggio che si scrive il proprio autore. Si muove in questo inferno di Tebe con la sicurezza di Virgilio, di girone in girone rende il gioco serio della maschera maledettamente vero. E gli dei si fanno largo come dolorosi squarci dal suono della sua voce, che ha già l’eco anticipato di tutto il dolore di questa tragedia.

Edoardo Barbone è Creonte, Manto, un Messaggero, il Coro, una Voce, si lascia catturare da questo metafisico, e insieme fisico, gioco al massacro giocato soprattutto sul terreno della phonè, I suoi personaggi hanno lo stesso zolfo degli altri, danzano la stessa danza di morte, con passo rallentato, ieratico, orientale. Mauro Lamantia è Voce, Coro, e Giocasta. Si sentono ancora gli umori, nella sua regina, di quel parto socratico del personaggio. Tira fuori dal ventre il femminile archetipico, l’anima junghiana, trova il sangue femminile che non ha, come una traccia atavica, mnestica, strappata a viva forza dal suo dna spirituale. Valentino Mannias è un Edipo terribilmente vero, quanto la verità più scomoda che è lì ad aspettarci di fronte agli occhi. La sua laringe è una camera di tortura dove gli dei si divertono a martirizzare la sua anima. Le maschere e i costumi, insieme arcaici e moderni, danno a questa favola un vestito dark, che sfina il dolore e ne fa tragedia.

Danilo Caravà

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