Si può danzare la parola, si può rendere, decisamente, ogni fonema una costruzione grafica corporea, con lettere a volte decisamente devianti, e questa versione del lavoro pirandelliano lo dimostra. La prima parte, a Berlino, è una particolarissima danza di morte da parte dell’Ignota, che si lascia ora accarezzare, ora stringere e graffiare, da un’invisibile, volteggiante Tersicore. Scosse nervose, residui elettrici di una possessione di qualche divinità che è pronta a stendersi sul lettino di qualche nevrosi. La regia di Luca De Fusco è un’affascinante e impietosa gastroscopia dell’anima della protagonista, in grado di mostrarci sullo schermo, trovato sul velo della quarta parete, tutte le ulcerazioni tessutali dell’identità, dell’immagine del personaggio. Con la pennellata precisa di un Rembrandt, introduce tridimensionalmente lo spettatore nella lezione di un’anatomia interiore. Ma, dove il bisturi e il divaricatore esprimono tutta la maestria di anatomo-patologo della drammaturgia, è sul linguaggio. La phoné emana tutta la sua alterità, la sua vita propria. Si mostra l’intuizione pirandelliana sul fatto che l’equivoco dell’identità, incoglibile se non come specchio dell’altro da sé, dunque già nata male da questo paradosso, si giochi sul terreno del linguaggio.
C’è un sasso lacaniano del significato, nella bocca dei significanti e nella laringe dell’interprete, che rende pienamente il difficile parto podalico di parole che sono strappi nella carne dell’esserci. La dimensione fortemente noir della vicenda è resa attraverso una protagonista che apre, sin dall’inizio, il vaso della Pandora cinematografica di Pabst, e mostra quanto sia profonda la tana di psicopatologie del Bianconiglio. Con la lametta fonetica, la donna si provoca, deliberatamente, ferite, e ne mostra il sangue sonoro. Ha il grande pregio di esprimere tutta la fluidità di un quadro impressionista, evitando di contornare di nero la figura. Costruisce uno spartito volutamente atonale, dodecafonico, opera lirica di uno Schӧnberg o di un Berg. Terremotano tutte le maschere e le costruite certezze degli altri personaggi, bravi a esprimere tutti i loro marionettistici giri di valzer viennesi verbali. Qui è soprattutto la parola a capitalizzare l’attenzione, ad essere a disagio, e a creare una sensazione di disagio. Nell’immediatezza della materialità del suono vive, e si tormenta, tutta l’inquietudine della coscienza. Lucia Lavia riesce ad aggiungere una verità in più al suo personaggio, a svelare un livello ulteriore dell’enigma creato da Pirandello. La purezza, l’idealismo della maschera che chiede di rinascere nell’identità della moglie scomparsa; la richiesta, rimasta inevasa, di accettare questo atto come si accetterebbe un figlio non naturale; e il proprio sé ha sempre la caratteristica di essere “adottato” dal singolo. Vera, perché tormentata dall’inestirpabile finzione, s’agita e si tormenta per essere questa una nessuna e centomila, prima di tutto in tutti i fonemi che produce. Il suo corpo cerca, coreuticamente e biomeccanicamente, di sfuggire dalle mani invisibili del burattinaio metafisico. Decisamente, si candida ad essere un’eroina tragica in visita al ventesimo secolo: Antigone in cerca d’autore, catapultata nell’indiavolato secolo breve; animata da forze ataviche, Pizia; Cassandra non solo increduta, ma ritenuta malata, nevrotica, dai giudizi psicanalitici degli esseri del XX secolo. E’ sola nella sua personale moltitudine, l’Ignota, ed ha uno straziante bisogno di trovare un’autenticità, fosse anche quella costruita dal copione, tutto da inventare, di moglie ritrovata.
Nella scena finale, al posto del deus ex machina, si presenta l’altra candidata ad essere la moglie: una figlia di un dio minore sulla carrozzina, versione complementare della protagonista, quasi afasica, perfetto contraltare della torrenzialità verbale dell’altra. L’Ignota giganteggia sul lato alto della scena, moltiplicata sul diaframma che sostanzializza la quarta parete. Celebra una sorta di rito pagano atzeco, in cui si chiede il sacrificio di un’identità per assicurare la prosecuzione di un mondo, seppur fragile come cartapesta. Per una volta, il raisonneur del teatro pirandelliano è una donna con una follia lucidissima, una capacità penetrativa enorme, in grado di andare oltre le maschere, per trovare il silenzioso urlo munchiano, ben espresso dagli altri interpreti. E, comunque sia, la protagonista, anche nell’ennesima e scelta fuga, resiste al proprio oblio, ed insiste a vivere come il Caligola camusiano, pugnalato a morte.
Danilo Caravà
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