Recensione: “Černobyl’”

Černobyl’
Foto Marcella Foccardi

Quando si ha occasione di assistere a uno spettacolo di Michele Sinisi, si sa che non sarà un’occasione banale o scontata. Seguendo l’assunto di Brecht, e andando in una direzione contraria al confortante sentiero predeterminato della cara e vecchia catarsi, il regista costruisce un teatro antiaristotelico, nei confronti del quale la platea non può restare indifferente. E’ in grado di sorprenderti, di spiazzarti, e, se tu pensi: “ora farà così”, invece lui va in una direzione decisamente diversa. Anche con questo spettacolo, il regista dimostra tutta la sua esplosiva verve creativa, che lo apparenta a quella cinematografica di un possibile Terry Gilliam. Un testo su Černobil’ rischiava di essere l’ennesima riproduzione seriale, idealmente made in China, di teatro di narrazione;  invece, attraverso la penna del drammaturgo Federico Bellini e la regia di Sinisi, acquista una sua specifica quiddità, un’anima individuale che non può essere, in alcun modo, replicata. Il rizoma di Deleuze è, letteralmente, divorato dal regista, che riesce a trovare connessioni neurali inaspettate con l’intero mondo letterario ed ermeneutico russo.

I poveri cristi di Ensor non entrano più a Bruxelles, ma in una grande Madre Russia con le mammelle avvizzite; una sorta di scatola nera, illuminata inizialmente da una lampadina, che ci rimanda subito a una dimensione tutta mentale, ovvero la scatola cranica dello scienziato, depresso più che pazzo. Si rievoca il famoso aforisma dostoevskjiano (aleggia peraltro l’ombra, dichiarata, di Delitto e castigo): se Dio non esiste, tutto è permesso, compreso spaccare l’atomo. E la fissa per la fissione, la meccanicità burocratica e, insieme, ideologicamente pavloviana, dei funzionari di regime, si esprimono magnificamente, in una perfetta sovraimpressione tra Gogol’ e Bulgakov. Gli atomi fatali, espressi in un’indovinata scenografia di sfere perlacee, di mondi da giocare, orfani di Chaplin e delle sue irriverenti dittature, sono il muto coro dei novelli Maestro e Margherita che non hanno più né un romanzo, né un buon  diavolo per riscattarli. O, meglio, qui il buon diavolo diventa la mano del regista, in grado di affrontare e rovesciare tutti i topoi della cultura russa, con un’acutezza e un bel esprit che ricorda quello di Allen in Amore e guerra.

La mejercholdiana esibizione delle marionette di regime, di questi Arlecchini postmoderni, di un servo– meccanismo del potere, di rock and roll robots che si muovono con scatti meccanici, riesce a rendere perfettamente la pantomima di un potere che replica stancamente se stesso; ideologia, anzi, idiotologia, che gira a vuoto. Una musica da discoteca stordisce, ma, insieme, diviene memento per la  platea, come pinzette che tengono ben sollevate le palpebre dell’Alex di turno, perché non ci sia modo di voltare la testa, di addormentarsi nell’impersonale io non so, io non c’ero. Compare persino lo spettro di uno scienziato suicida, anima morta eppure vivissima, con ragioni che i vivi non riescono ad avere. Di nuovo torna Bulgakov, e la sua intuizione di far cortocircuitare il materialismo storico con l’immaterialismo magico, misterico, sovrannaturale. Non c’è un prima, non c’è un dopo:  ci sono i fatti, e c’è la traccia mnestica. Un  residuo di carica elettrica neuronale, espressa con un paio di guanti laser, riproduce eternamente, per questo Sisifo nucleare, la tragedia. Nella memoria, il tempo smette di essere lineare; danza i suoi girotondi, si ripete in moduli di azioni, in routine psicofisiche angoscianti, in lazzi che sono segmenti di pellicola legati in un anello, irrisolvibile nastro di Moebius. Se il dio razionalissimo di Einstein non gioca a dadi, lo fanno questi personaggi, che usano, al posto dei cubi, atomi.

Tutto riesce a stare in equilibrio, incredibile, tra immedesimazione e straniamento epico: geniale il personaggio che esprime le didascalie, terzopersonalizzazione burocratica degli accadimenti. Tra dramma e farsa, fra la tradizione e la scomposizione prismatica dei colori di fari a led, non c’è distanza. Bravi gli interpreti tutti, a entrare con efficacia in questo gioco terribilmente serio, dove la ruota della risata e del pianto gira freneticamente, creando l’illusione di un solo volto, una sorta di smorfia, frutto di un’unione, a livello genetico-molecolare, dei due stati d’animo. Il giardino dei ciliegi, ormai, è diventato una centrale nucleare, ed è come se Trofimov, o il dottor Astrov, chiosassero idealmente: “Beh, noi ve l’avevamo detto che sarebbe finita così.” I personaggi  si trovano, dunque, in uno stato di sospensione tra i generi teatrali; nella scatola di Schrӧdinger, in compagnia del gatto Behemoth, in attesa che qualcuno, ovvero la platea, stabilisca se sono vivi o già morti. Mentre la grande Madre Russia diventa una Demetra scomposta, stanca e avvizzita: l’ultima esponente della classe dei mugiki, che non ha più un nobile tolstojano cantore, e può solo partorire il feto di un incerto e pericolante futuro. Nel finale, 2001 incontra Berkoff, gli arrabbiati e, insieme, gli squallidi alberghi, adesso pure  radioattivi, di Gor’kij.

Danilo Caravà

Be the first to comment

Leave a Reply

Your email address will not be published.


*