Mi piace da morire (dal ridere)

piace da morire

La libertà comincia dall’ironia: con questo detto ben si potrebbe commentare lo spettacolo in scena al Teatro Libero, “Mi piace da morire”, di e con Debora Mancini, accompagnata dalla pianola del musicista a paga sindacale Daniele Longo.

Fin dal principio, l’attrice ricerca un legame sui generis con il pubblico, costruito sulla complicità. Nessuna quarta parete nello spettacolo della Mancini, lo spettatore è chiamato a partecipare esclusivamente con la sua presenza e il suo ascolto, piuttosto che attraverso un rapporto d’immedesimazione. Dal palcoscenico l’attrice presenta il suo personaggio, Debora senz’acca, che apre la porta della sua stanza verso il pubblico, raccontandogli paure e contraddizioni, la sua vita.

Unico vero linguaggio è l’ironia, cornice narrativa dello spettacolo. Un’ironia nuova, fresca, un po’ cabarettistica, priva di giudizio, denunce o istruzioni di alcun tipo. Un’ironia che fugge da battute superficiali o riferimenti ovvi, trasformata invece in un metodo d’interpretazione e rappresentazione, attraverso la quale l’attrice parla di vita, del suo corpo, di amore e di morte, di sesso, di uomini, di libertà.

Il palcoscenico prende le forme di una stanza da letto, colorata e dinamica come l’attrice. Gli oggetti di questo quadro scenico creano un’intesa con la Mancini, la cui presenza “piccola e graziosa”, la cui gestualità, non fanno che sprigionare anch’essi ironia.
Da questa stanza, il disagio di vivere e l’ironia, le battute e la letteratura, l’irruenza e la riflessione trovano spazio con naturalezza e spontaneità, davanti alla quale il pubblico ride di una risata intrattenibile e autentica. L’ironia e l’autoironia, prive di banalità o sarcasmo, diventano chiavi preziose con cui aprire le gabbie piccole o grandi nelle quali vengono chiuse le paure e le contraddizioni di ogni giorno, diventano una vera rivoluzione libertaria.

Chiara Musati

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