Quando pensiamo alla Calabria, la prima immagine che ci viene in mente non è certo la neve. Eppure è lì che si dirige, a passi lentissimi, il protagonista di questo racconto. Un tappeto di neve, uno spazio piccolissimo e circoscritto all’interno del quale c’è spazio solo per una lapide. E’ un cimitero, ed ecco quindi che il freddo ambientale si unisce al gelo dell’anima, nel luogo per eccellenza in cui dominano il dolore e il silenzio.
Ma non è di silenzio che l’uomo ha bisogno. Di fronte a quella lapide, che cela il corpo di una madre, l’uomo trova finalmente il coraggio, fuori tempo massimo, di rivelare il suo più grande segreto: sono un masculo a cui piacciono i masculi. Una rivelazione forse non indispensabile, visto che la donna, quand’era ancora in vita, lo aveva già intuito, senza giudicare. Ma necessaria per l’uomo, per ritrovare un definitivo ricongiungimento con la madre, eliminando il rammarico di non essere mai stato capace, prima che morisse, di farsi conoscere davvero.
Inizia così il racconto di una vita ai margini, nel bellissimo Masculu e Fiammina, presentato in questi giorni al Piccolo Teatro Melato di Milano da Saverio La Ruina, tra i più premiati artisti della scena italiana.
La Ruina, appoggiandosi solo alla forza delle sue parole, sovverte i canoni e le aspettative, sin dalla costruzione di quel paesaggio così insolito, ovattato, freddo e ci racconta una storia scomoda e durissima che inizia dall’infanzia e arriva fino all’età adulta.
Non un romanzo di formazione né un tradizionale flusso di coscienza bensì una confessione privata e intima. Ci sentiamo quasi fuori posto, noi spettatori, seduti comodamente sulle nostre poltrone, nell’assistere alle poche gioie e alle tante sofferenze di quell’uomo che ha scoperto subito la sua attrazione verso le persone del suo stesso sesso.
Non si censura, La Ruina, mai, e non risparmia dettagli apparentemente fastidiosi, come la masturbazione di un ragazzino che pensa agli uomini o la descrizione dell’omicidio per omofobia del suo compagno. Ma riesce a farlo con una dolcezza insospettabile, pur senza abbandonare mai quel dialetto calabrese che, a sentirlo da queste parti, in piena pianura padana, suona aspro e roccioso. Non alza mai i toni, riuscendo nell’impresa di renderci partecipi di quell’intimità, creando con il pubblico un’empatia totale. E di colpo, l’enorme teatro diventa una piccola stanza, fredda e notturna, con le luci abbassate, in cui si parla a bassa voce per non disturbare i vicini. Improvvisamente non siamo più sulle nostre poltrone ma siamo lì con lui, in quel cerchio di neve, seduti sulla lapide, ad ascoltarlo e a farci guardare negli occhi.
Ennesima bellissima prova per La Ruina, un racconto delicato e toccante che raccoglie meritatissimi applausi e lacrime di commozione.
Massimiliano Coralli
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