“La città dei vivi”: intervista a Ivonne Capece

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foto Micol Vighi

Al Teatro Fontana debutta in prima assoluta La città dei vivi, frutto del lavoro di 5 centri nazionali di produzione teatrale (Elsinor Centro di Produzione Teatrale, TPE Teatro Piemonte Europa, Teatri di Bari, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro di Sardegna), che ci trascinerà in un labirinto di scelte estreme e destini incrociati, dove la realtà supera la finzione e la coscienza diventa il vero palcoscenico.

La città dei vivi è uno spettacolo teatrale liberamente tratto dall’omonimo libro di Nicola Lagioia, adattato e diretto da Ivonne Capece, un vero e proprio viaggio nell’abisso dell’animo umano. Un’esperienza emotiva e intellettuale che ci costringerà a guardare in faccia il lato oscuro della nostra società.

Se il libro di Lagioia racconta la storia vera e inquietante dell’omicidio di Luca Varani, avvenuto a Roma nel 2016, un caso che ha scosso profondamente l’opinione pubblica italiana, la versione teatrale di Capece trasforma la cronaca nera in una riflessione profonda sul senso di smarrimento, sull’alienazione urbana e sulla fragilità dei legami umani.

La scena è essenziale, quasi spoglia, per lasciare spazio alla parola, alla tensione, al silenzio che urla più di qualsiasi grido. Uno specchio inquietante, che riflette le contraddizioni di una generazione sospesa tra il desiderio di appartenenza e il vuoto esistenziale. Un’opera necessaria, che scuote e che farà pensare.

Ma cosa si nasconde dietro le luci della città?

Per saperlo ho contattato la regista e direttrice artistica del Teatro Fontana di Milano, Ivonne Capece. Quando e perché ha deciso di portare in scena un fatto di cronaca così efferato e brutale?

Non mi interessava raccontare un delitto, ma il vuoto che lo circonda.

La città dei vivi è una storia che parla della nostra incapacità di vedere, del bisogno di capire ciò che non si può capire. È una ferita che attraversa una generazione, e mettere in scena quella ferita significa chiedersi dove siamo, come viviamo, cosa ci rende umani. Non è voyeurismo, è un tentativo di restituire alla realtà una densità morale e poetica.

Come hai lavorato sull’adattamento teatrale di un romanzo così intenso e complesso?

Con grande rispetto e con la consapevolezza che lo spettacolo non è il romanzo.

Ho cercato un linguaggio che restituisse la complessità del libro di Lagioia senza imitarlo. Ho isolato alcune linee narrative, alcune voci interiori, ho creato dialoghi immaginari ponendo al centro l’inquietudine dell’artista (e dell’essere umano) di fronte alla comprensione del male. Il teatro può permettersi il silenzio, l’attesa, la sospensione: ho lavorato su quei vuoti più che sulle parole.

Dal punto di vista più concreto, sono stata seguita da un avvocato penalista per essere guidata nel difficile confine tra il mio diritto alla libertà creativa e il rispetto per le persone reali che, involontariamente ma inevitabilmente, sono diventate per me materia di ispirazione e riflessione.

È importante segnalare che lo spettacolo non ha fini giornalistici o di cronaca, non ha come obiettivo la conoscenza e la diffusione delle verità processuali, e in nessun punto intende accusare, insinuare o esprimere giudizio reale nei confronti di soggetti eventualmente riconoscibili. Ogni elemento narrativo mira a raccontare una storia universale, proposta in chiave poetica, simbolica e provocatoria. Non ci sono nomi, ad esempio, e ho cercato tra attori non romani (l’unico tra loro che casualmente lo è, non basa sulla provenienza regionale l’identità del suo ruolo) – andando anche un po’ contro le aspettative più ovvie che il pubblico potrebbe avere, cioè riconoscere nei personaggi la romanità come cartina al tornasole della loro identità, e far resistere così alla tentazione di trovare in ciò una parte della spiegazione (“certe cose succedono solo a Roma ecc.”). Ho lavorato con loro perché ci fosse un “sentore” di romanità, un omaggio alla romanità, ma non una restituzione di tipo neo-realistico o cinematografico, perché è importante per me dire che non si tratta di una storia “romana” – sarebbe sia offensivo che riduttivo – ma di una storia universale. In particolare ho voluto operare questa scelta controcorrente sul ruolo della vittima perché desidero che in lui non si veda solo un pasoliniano ragazzo di borgata, ma nel suo linguaggio ibrido (un po’ romanesco, un po’ meridionale, un po’ nordico e un po’ slang) si riconoscano tutti i ragazzi, gli adolescenti, le generazioni delle periferie, dei paesi e delle città d’Italia – e ipoteticamente del mondo. Qualsiasi ragazzo e qualsiasi genitore potrebbe trovarsi in situazioni analoga a quella dei protagonisti di questa vicenda: l’errore consiste proprio nel credere che possa accadere solo ad altri. Roma ha molta rilevanza nel romanzo, nello spettacolo smette di essere una città specifica e diventa il simbolo della società nella sua interezza, metafora dei rapporti che l’essere umano ha con i propri simili e con le cose.

Se Roma, nel romanzo di Lagioia, è la protagonista nella versione teatrale…

Nel romanzo Roma è un personaggio a tutti gli effetti. È una città bellissima e malata, sacra e corrotta. Ho voluto fortemente lavorare sull’idea contenuta nel romanzo di una città che spia un’altra città: i residui della Roma classica e papale evocata da statue chiuse in cantinelle di legno e corde, o quadri appesi dal retro e a testa in giù sollevati maldestramente con corde (poiché tutti in procinto di cadere, essere trasportati altrove o eliminati per sempre) spiano la città nuova, che si riduce all’ordinarietà di un appartamento qualunque. L’appartamento stesso è ridotto alle sue componenti rudimentali (quelle che sono servite per uccidere. E che servono per espletare i bisogni più elementari: mangiare, dormire, fare sesso, andare in bagno): il frigo della cucina per i cocktail, l’alcol e l’Alcover, la droga dello stupro; il bagno con lavatrice e vasca dove è iniziata l’aggressione e il piumone arancione (divenuto tristemente noto) della camera da letto dove si è concluso il massacro. La precarietà della bellezza, continuamente minacciata dall’incuranza, dal degrado fisico e morale dell’essere umano; ma anche il giudizio di un passato glorioso davanti al quale ci sentiamo come italiani per sempre perdenti. Il nostro passato è migliore del nostro presente: questo è il messaggio che Roma pone sotto gli occhi di tutti. I fasti del passato sono irraggiungibili, un Eden di gloria e di realizzazione perduto per sempre, che ci si illude di ritrovare in surrogati di festini d’appartamento. Ma le opere immortali, tra cui spicca per la rilevanza simbolica che ha anche nel romanzo il Mosè di Michelangelo, ricordano anche la ciclicità della violenza. Una delle battute più profonde dello spettacolo la pronuncia lo Scrittore ai 3 ragazzi ormai a un passo dal crimine:

«Ricalcate una scena che si ripete da millenni. Siamo qui, senza nome, di passaggio. Tra cento anni saremo morti tutti e questa stanza non ci sarà più…»

Quali sono stati i principali ostacoli nel tradurre l’inchiesta narrativa in linguaggio scenico?

Il romanzo è una spirale, un continuo entrare e uscire dai fatti, dai pensieri, dai giudizi. Portarlo in scena significa rinunciare a una parte della sua profondità analitica, ma provare a tradurla in emozioni irrazionali e oniriche. L’ostacolo principale è stato proprio restituire la complessità del pensiero senza spiegare, senza semplificare e senza diventare retorici: tentare di dare una voce a concetti che non riusciamo a dire a parole. La regia ha una dimensione molto visiva (con video e attori semi-olografici) e anche performativa, soprattutto durante il lungo quadro dell’appartamento, che nessuna parola avrebbe potuto raccontare, ma che i corpi da soli possono restituire in tutta la sua ferocia e il suo dramma. Gli interpreti dei 3 ragazzi sono attori di prosa ma con skill fisiche significative, quasi dei performer-danzatori.

Se posso, perché hai deciso di integrare elementi digitali e attori semi-olografici nella messa in scena? Qual è il valore aggiunto?

Perché la realtà oggi è anche quella digitale. Le immagini, gli schermi, le proiezioni fanno parte della nostra percezione quotidiana. Nel caso di La città dei vivi, il digitale è una presenza che non si lascia toccare. Gli attori semi-olografici rappresentano quella parte di noi che entra attraverso gli schermi, la distanza, la non-presenza. Non è un vezzo tecnologico, ma un linguaggio per raccontare un’epoca che non distingue più tra reale e virtuale. La multimedialità della regia – oltre a costituire una delle mie personali chiavi di ricerca stilistica in questo momento del mio percorso (magari in futuro la abbandonerò del tutto) – mi aiuta a raccontare 3 temi della regia: il primo e più potente a mio avviso è quello degli estranei, gli “altri”, il mondo che ruota attorno ai protagonisti. I video “invadono” gli interpreti, come una violenza esterna perpetrata costantemente sull’intimità delle loro coscienze. Il mondo fuori (dei social, degli amici, delle interviste, delle trasmissioni televisive, ma anche quello dei conoscenti più o meno diretti e dei parenti stessi) entra a gamba tesa, senza sensibilità, senza comprensione, nel dolore e nei pensieri combattuti di chi più da vicino ha vissuto il trauma del massacro; il pubblico invade il privato come uno spettro crudele, non c’è (come gli attori in video) eppure è lì, costringe, confonde, tortura. Quando il video entra in scena è sempre per esercitare una forma di violenza sui personaggi, un giudizio o una manipolazione. La prima battuta di uno dei personaggi è:

«È imbarazzante.

È una lotta non lasciare che la nostra identità venga travolta dalla falsa immagine che gli altri hanno di noi»

I video mi aiutano inoltre a restituire una dimensione mentale, “spettrale” appunto: lo spettacolo non racconta il delitto, è un viaggio nella mente e nelle inquietudini dello scrittore che vuole farne un romanzo. Come in un moderno “Sei personaggi in cerca d’autore”, i protagonisti della vicenda (dal vivo o in ologramma) appaiono all’autore all’interno del suo appartamento, attraversando con lui dialoghi immaginari, mai avvenuti, confondendo passato, presente e futuro della vicenda: gli parlano di sé, si offendono per la sua invadenza, diventano suoi specchi. E lo scrittore stesso viene impossessato da alcuni di loro (i 3 padri, nei quali si rispecchia per ragioni di natura generazionale e personale). Infine c’è la dimensione allucinatoria della droga, sotterranea protagonista della regia; solo nella scena dell’appartamento esplicitata, ma sempre presente come motore degli stati psicofisici dei 3 ragazzi in scena. Spesso il video restituisce un’atmosfera lynchiana, lo stesso equilibrio tra il macabro e il banale che si trova nelle opere di Lynch, e le stesse atmosfere dominate da colori accesi e luci instabili.

Come hai lavorato sul concetto di “colpa” e di “responsabilità”?

Non credo nella colpa come condanna, ma come domanda.

Lo spettacolo non cerca un colpevole, ma prova a capire cosa significhi essere responsabili, oggi, di fronte al male. Chi sa e non agisce, chi guarda e si volta dall’altra parte, partecipa in qualche modo alla costruzione del vuoto. Il teatro serve a riaprire quello sguardo, a riattivare l’empatia. In scena costante è anche il rimando al tema generazionale. Lo scrittore è un attore anagraficamente più grande degli interpreti dei tre ragazzi, e il rapporto con lui si trasforma costantemente in un dialogo immaginario tra tre figli con i tre padri: il ruolo dello scrittore si confonde con quello dei genitori maschi che hanno attraversato la vicenda, i ragazzi confondo continuamente i piani, scambiando lo scrittore per il loro padre. C’è un tema di responsabilità universale di fronte alla complicità col male – che riguarda chi lo commette e chi ne è direttamente o indirettamente coinvolto; un tema di responsabilità generazionale: cosa hanno ereditato da noi i nostri figli – l’eredità della violenza – e quindi quanta responsabilità hanno gli adulti quando i più giovani falliscono (e viceversa quanta responsabilità hanno i più giovani sulla mancata messa a fuoco di sé); la responsabilità intellettuale di fronte alla rappresentazione del male: la mia, la tua, quella dell’autore, di chiunque lavora nel mondo della cultura e dell’informazione e che fa di certe questioni materia della propria indagine; la responsabilità sociale e di comunità di fronte alla “mostruosità” percepita nell’altro e non in se stessi.

Qual è il messaggio più urgente da trasmettere al pubblico?

In generale che il male non è un altrove. Non è un’anomalia, ma qualcosa che ci abita, che può emergere in ogni società, in ogni individuo. È nella zona grigia che dobbiamo guardare, non nei mostri, ma in noi.

Dovesse esserci tra il pubblico del Teatro Fontana un Luca Varani, cosa vorresti che si portasse a casa dopo aver visto La città dei vivi?

Questa è una domanda molto delicata, alla quale forse non mi sento di rispondere.

Una parte di me vive un profondo conflitto per aver fatto del suo dolore materia della mia ricerca emotiva, artistica e spirituale. Vorrei semplicemente che la mia opera non risultasse offensiva per chi ha sofferto e soffre ogni giorno per questa vicenda o per vicende ad essa simili. L’arte non offre risposte sul reale e non può restituire alla vita ciò che le viene tolto.

A chi consiglieresti la visione dello spettacolo?

A chi non si accontenta delle risposte facili.

A chi ha paura, ma non scappa.

A chi pensa che il teatro debba ancora essere un luogo di verità, anche quando fa male.

A chi non si aspetta di vedere uno spettacolo convenzionale ma prova ad abbandonarsi ad un’esperienza poetica e dolorosa insieme.

Cosa vorresti leggere in una recensione e cosa ti darebbe fastidio?

Vorrei leggere che lo spettacolo ha portato a pensare, o almeno a sentire qualcosa, che le ragioni emotive che lo hanno mosso sono rispettate più di quelle estetiche, che in qualche modo si percepisse che costruirlo non è stato come preparare un Amleto o una qualsiasi opera di finzione. Gli attori, le maestranze, io stessa, abbiamo attraversato turbamenti profondi e superato paure e fatiche (anche fisiche) per realizzarlo. Gli attori fanno fatica a dormire la notte, ad esempio. E io anche dormo 3 ore a notte da più di un mese, senza capire perché. In ogni fase del processo ci siamo avvicinati con un rigore quasi rituale. In questo momento io sono esausta, è una materia psichica che ci ha emozionato ma anche provato moltissimo. È un progetto che è andato oltre un semplice allestimento: è diventato una materia di analisi esistenziale, di messa in discussione di noi.

Mi darebbe dispiacere se fosse definito “spettacolo di cronaca nera”, perché non lo è: è un’indagine sull’essere umano, sulla sua opacità, sul bisogno di guardare dove non si vuole guardare. E sulla difficoltà etica di fare strumento di bellezza poetica il nostro degrado, la nostra debolezza e il nostro dolore.

Se siete pronti per un viaggio teatrale nell’abisso dell’animo umano, non dovete fare altro che andare a teatro… per scoprire cosa significa davvero essere vivi!

Teatro Fontana

dal 13 al14 novembre, dal 17 al 26 novembre

LA CITTÀ DEI VIVI

liberamente tratto dal romanzo di Nicola Lagioia

regia, video e adattamento drammaturgico Ivonne Capece

con Sergio Leone, Daniele Di Pietro, Pietro De Tommasi, Cristian Zandonella

sinossi:

Un delitto brutale scuote Roma: due giovani sotto sostanze stupefacenti torturano e uccidono un coetaneo in un appartamento, senza apparente motivo. Questo fatto di cronaca realmente accaduto diventa metafora per scavare nel buio delle nostre coscienze.

La prima produzione Elsinor 2025 è uno spettacolo struggente con attori reali e semi olografici sul rapporto genitori-figli, sulla bellezza e la violenza, che scuote in modo profondo e pone interrogativi: quanto sappiamo di non sapere sulle vite di coloro che amiamo? Perché diciamo sempre “Ti prego, fa’ che non accada a me” e mai “Ti prego, fa’ che non sia io a farlo”?

Di seguito le date del tour nazionale:

dal 9 al 14 dicembre 2025 – Teatro Astra, Torino

dal 18 al 19 dicembre 2025 – Teatro Arena del Sole, Bologna

14 gennaio 2026 – Teatro Eliseo, Nuoro

dal 24 al 25 gennaio 2026 – Teatro Kismet, Bari

dal 27 gennaio al 1 febbraio 2026 –  Teatro Bellini, Napoli

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