Amleto † Die FortinbrasMaschine è il guado segreto nel fiume che svela le tracce di un passaggio dall’altra riva alla nostra vita. Riscrittura di una riscrittura, lo spettacolo è una libera ispirazione che si dispiega dal relativamente ermetico Die Hamletmaschine di Heiner Müller di cui vengono fedelmente ripresi i cinque atti. Pescando da un cantiere di fantasmagorie ataviche, in scena vige un prodigio di figura e voce che vive, languidamente muore e sopravvive dando luogo all’àgere, oblio dell’azione nell’atto.
Kabuku in senso etimologico (essere al di fuori dell’ordinario), Roberto Latini inchioda in un esordio che non tradisce lo sviluppo del dramma. Ka (canto), 舞 bu (danza), 伎 ki (abilità) insieme si sposano per schiaffeggiare il rischio dilagante di abulia.
Il montaggio convulsivo delle scene lascia naufragare in letture metateatrali che fungono da Manifesto di denuncia del post-modernismo. Si vive sull’orlo di una deriva che vuole uscire, sperimentare il confine, valicare il centro di un mondo rotondo ma che può essere rovesciato, come il rito ci insegna. È nel rovescio del carnevale che trova spazio la ciclicità su cui le luci di Max Mugnai sembrano adagiare un’aureola. È nel ritorno del loop fonico che finisce di configurarsi il cerchio.
La linearità del tondo che impera sulla scena è il vincente ossimoro visivo rispetto all’altalenarsi continuo ed estenuante d’irregolarità, di rotture di punti di vista, di protagonisti, di irruzioni, di citazioni.
Un Amleto di meno è missione compiuta per Roberto Latini e Barbara Weigel che ripercorrono una continua ibridazione di bellezze dilaniate e sguardi politici inossidabili. Un Pater Noster sposa l’universale diritto umano alla rivoluzionaria e anacronistica Fraternité, divenendo il requiem di un Album di Famiglia estinto. Allora la riconciliazione non può che avvenire con lo sguainarsi di una spada, una croce, visibilmente delineata nel titolo dell’opera.
L’ispirazione mülleriana è particolarmente evidente nel mascheramento ermafrodito e insensato che al limite del distonico sculetta a suon di Verdi e incontra Blade runner nell’apoteosi della celeberrima scena sulla miseria del genere umano. Ma l’Europa delle donne è inesauribile.
La scena è di Ophelia, la donna con l’overdose sulle labbra che ha smesso di uccidersi ieri.
Ophelia-Molly Bloom che delira in flussi assertivi alla vita.
Ophelia-Marilyn che intona lo slogan emozionale che impera sulla società odierna: Happy, Happy che non riesce a divenire Birth perché il pulsare non appartiene più al cuore ma all’assordante trillo di una sveglia.
Tutto si scioglie in un ossuto silenzio che pendola fra il non essere e il sembrare, fra l’inquietudine e la pace del viaggio inesperito.
L’ardente maestria scenica di Latini è accompagnata dalla fibrillazione estatica delle musiche di Gianluca Misiti generando come effetto una riflessione metatetatrale che ustiona non per il puro e biotto gusto di ferire ma per l’infocato desiderio di impulso all’azione che è arsenale contro la morte. “Where is this sight?”
<<Ich war Hamlet.
Io non sono Amleto.
Non recito più alcun ruolo>>
Amleto è morto. Il suo dramma non si terrà più. Amleto resta morto! E noi l’abbiamo ucciso! Che acqua useremo per lavarci?, domanderebbe il motto di filosofica memoria.
L’acqua del BLA BLA BLA insaporita con l’atto del voltar le spalle come invincibile Durlindana per buggerare i frantumi dell’Europa infranta, ora come allora.
Alessandro Cutillo
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