Recensione: “Mari”

mari

Esiste una paura forse insita in qualsiasi essere umano: perdere la capacità di comunicare cose astratte. Genericamente parleremmo di incomunicabilità, particolarmente individueremmo l’incapacità di rendere concreto con la parola ciò che profondamente in essa non può essere vincolato.

Mari, scritto e diretto da Tino Caspanello, con Cinzia Muscolino e Tino Caspanello, è un’indagine sulla rottura della comunicazione mediante linguaggio verbale e sull’individuazione della matrice di orientamento e cura che nasce dopo questa frattura iniziale.

Le due figure in scena sono personificazione vincente del movimento struggente e solitario che come onda si infrange rompendosi e trasformandosi in comprensione silenziosa, affidata ai sensi e al non verbale. Si è come immersi in una favola in cui gli elementi e i ruoli che portano innanzi il racconto sono sottoposti a un continuo passaggio dal via.

Mari, spettacolo che inaugura la XVIII edizione di Tramedautore – Festival Internazionale delle Drammaturgie ospitato dal Piccolo Teatro Grassi dal 14 al 23 settembre 2018, è trama inafferrabile di una ferita quotidiana che può essere sanata. Sanata con l’insistenza di una figurina esile e convincente che impiega la costanza e la presenza come unguento per la rottura. Sanata con la comprensione di un’ombra paziente e pensante capace di individuare l’inizio delle fratture anche se non si vedono, ma si sentono.

Parte di una tetralogia degli elementi1, Mari è totem dell’acqua, del mare che fa da orizzonte alla ricostruzione di un’intimità comunicativa fondata sul tatto come legame e segnale che non può essere frainteso nella volontà di ritrovare una soluzione al dramma della divergenza di entropia.

L’acqua dissolve la rottura, la rende invisibile agli occhi degli stessi interpreti che si liberano della lingua, di un dialetto lento e fatto di pause, per rifondersi in una drammaturgia silenziosa e piena fondata sul buio e l’essenzialità.
In scena “c’è scuro”, la luna non fa capolino, i pesci quindi non sono venuti a galla. Tutto è retto dal gioco duale della compensazione che riesce a raggiungere la sua essenza nel momento dell’integrazione: il ritmo della partitura scenica è un chiasmo pieno, vuoto – vuoto, pieno che si integra con il superamento del verbale e l’approdo nel contatto della comprensione.

Alessandra Cutillo

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