Recensione: “La scuola delle mogli”

la scuola delle mogli
Foto Luca Del Pia

Un esperimento behaviouristico, di psicologia comportamentista, può essere giocato in una casa di bambole dove Nora, in anticipo sui suoi tempi ibseniani, parla l’idioma molieriano ed anche un po’, idealmente, il latino di Plauto, in grado di arricchire la ricetta drammaturgica di un irresistibile bel esprit. Dopo uno spietato “trattamento Moliere” attraverso il quale le palpebre della buona Agnese sono impossibilitate a chiudersi, e gli occhi sono costretti a vedere solo l’ingenua innocenza del cuore, il buon Arnolfo può sperare che l’inconscio della ragazza sia solo un bambolotto floscio da riempire con la stoppa dell’inerte ingenuità.

Tuttavia il crudele tentativo, teso a rendere la res cogitans, una piccola cosa, fallisce, e la ragazza, girando la testa, scopre l’inganno di questa platonica caverna delle ombre, e trasforma questo test empirico, questa Ecole des femmes, la cui didattica è costruita per sottrazione, in una revanche in cui la quiddità cromosomata xx, l’astuzia femminile del cuore di Pascal, è un tesoro innato destinato fatalmente a destarsi, scompaginando i piani del tutore che, a sua volta, gioca con il suo personale, freudiano, rocchetto di Hans un gioco fatto di va-e-vieni, di distanza misogina e di inevitabile attrazione. Cromaticamente carica, la casa è il fatale centro di gravità della scena, e gira continuamente attraverso l’antico meccanismo del periatto per mostrarsi al pubblico in ogni prospettiva, e svelare la meravigliosa macchina anatomica composta da una trama innervata di lazzi e scene di personaggi perennemente sull’orlo di una crisi di nervi, senza il conforto di un doktor che possa stenderli su un lettino psicanalitico.

La felice intuizione del regista Arturo Cirillo è quella di trovare la musica del testo molieriano, il suo ritmo, di scovare il tempo giusto, di farlo tenere ed insieme danzare agli interpreti, di meticciare felicemente il meccanismo antico della comicità atellana, con le marionette biomeccaniche di mejerchol’diana memoria. Sono felicemente tarantolati questi interpreti, non trovano giustamente requie in una regia che li elettrizza al pari delle rane galvaniche. L’eterno sole domestico che ruota su se stesso, creando un sistema scenografico copernicano, obbliga i personaggi a descrivere continue linee orbitali attorno ad esso, a trovare nella frenesia di un prestissimo la propria anima, che è più veloce dell’ombra di Peter Pan. Arnolfo, alias Signor del Ramo, è un danzante Arturo Cirillo, che dalla sedia della regia riesce a sdoppiarsi in un protagonista, il quale diventa efficacemente il metronomo emotivo della vicenda, destinato fatalmente a segnare un tempo via via più veloce. Riesce tra i numerosi pas de deux presenti nel testo scenico, a trovare una vocalità insieme rotonda e nervosa, che si impenna incisivamente come il pedale fonetico di Agus, che preme decisamente sull’acceleratore non togliendo l’altro dalla frizione.

Agnese, interpretata da una saporosa Valentina Picello, è una creatura che riesce nel corso dei 90 minuti dello spettacolo a descrivere foneticamente e gestualmente l’evoluzione di una specie che da bambola si tramuta in donna, e dal mondo di plastica fuggirà per trovarsi nello sconcerto di un’autocoscienza che si fa perplesso cogitare cartesiano. Rosario Giglio, nel doppio ruolo del servo di Arnolfo e del suo amico Crisaldo, gioca bene con la propria fisicità, e modula la laringe in modo di sintonizzarla ora sulla materica foneticità intontita del domestico, ora sulla puntuta e provocatoria retorica dell’amico. Georgette, un’incisiva Marta Pizzigallo, si diverte con maestria a fare la serva di Arnolfo, e gioca gutturalmente a far la tonta per non pagare dazio, e per aumentare, fino alla giusta cottura, la temperatura comica del suo personaggio. Giacomo Vigentini, declina bene tutte le incarnazioni dell’amoroso, del giovane punto dalla frenesia d’amore che sbatte come un moscone contro le pareti d’inganno poste astutamente da Arnolfo. I momenti con la luce stroboscopica riescono a raccontare, passando visivamente il racconto nella pellicola delle vecchie comiche del muto, il grado zero della comicità, la sua dimensione immediata pantomimica, il suo muoversi a ritroso fino a ritrovare un alfabeto ed una grafia fatta di gesti. La scelta registica di rendere a vista la trasformazione dell’amico del protagonista, nel suo servo, riesce a far allegramente cortocircuitare l’epilogo della vicenda, trovandolo in un deus molto umano, imparruccato, che dopo aver mosso la machina della casa per tutto il tempo, continua a muoverne silenziosamente i meccanismi.

La stessa Agnese, apre nel finale un inseguimento con il suo amato, quasi a voler deliberatamente ritardare e posporre la catarsi amorosa della vicenda. Tuttavia non ci saranno fiori per questo Algernon, questa cavia da laboratorio, che si deve scrollare di dosso il peso di un pregiudizio maschile, che si ritrova imprigionata in un nuovo labirinto più grande e più complesso costituito dalla vita stessa. E fa bene il regista a fotografarla in un bel fermo immagine in cui forse Agnese, al pari dell’elaboratore kubrikiano, ha paura che la sua mente, novello acquisto, svanisca, o che la casa di bambola sia lì, a meno di un passo, con l’odore di una nuova paraffina, pronta ad ospitarla per un gioco più complesso e pericoloso.

Danilo Caravà

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