Recensione: “La monaca di Monza”

la monaca di Monza
foto Laila Pozzo

Le parole del lavoro teatrale testoriano sono gocce che evaporano sulla pietra della lingua della monaca di Monza. Il regista Valter Malosti ha il merito di concretizzare il “verbum carnis factum est”, i fonemi dell’attrice s’aggrumano in una scura sostanza che fa denso il sangue dello spettatore, ogni suono è una chiocciola che si muove lentamente sulla lama di kurtziana memoria di un testo di carne che urla la sua struggente voglia d’anima. Marianna De Leyva accende la sua luce rossa di fronte allo spettatore, da dietro un diaframma trasparente sfida apertamente le voyeuristic intentions della platea, e mostra l’agiografia rovesciata, blasfema, la sua histoire d’o scritta bagnando la penna nell’inchiostro rosso delle ferite da flagello sadiano sulla morale comune.

Il nero pittorico, che toglie l’estremo fiato di Marat, mischiato con la luce malata, febbricitante, che squarcao le oscurità caravaggesche, vive sul palcoscenico scena dopo scena, svelando altre due cabine di questo peep show della dannazione, mostrandoci, l’alter ego femminile della protagonista, una giovane suora su cui il martirio e la dannazione sono lo specchio su cui la Signora può sfogare la sua mortido, tutta la sua pulsione di morte. L’altra cabina è dedicata all’amante, che completa questa infernale trimurti, e si impone con la sua torreggiante verticalità che vive la sua nemesi nel finale, in cui crolla e cade, come corpo morto cade, in un quadro di Michelangelo Merisi.

Per credere in un dio bisogna credere nella sua carne, e tutta la piece odora del dio testoriano, perso e ritrovato negli umori e nei miasmi dell’umanità. La sintesi hegeliana è abiurata per sottolineare l’antitesi, la contraddizione, quello squarcio nella tragedia incarnata che vorrebbe aprirsi un varco metafisico tra i gangli nervosi della vicenda. Dostoevskjianamente la coscienza della monaca è ingenerata dalla sofferenza, e il “patior ergo sum” è l’unica garanzia epistemologica per conoscere se stessa ed il mondo che la circonda. La teologia testoriana, qui efficacemente riprodotta, è in fondo rappresentata da mani callose, con pelle lacerata, che lavorano sul tornio del linguaggio le impossibili esistenze cristologiche dei personaggi.

L’attrice Federica Fracassi riesce a dare vita, col suo soffio fonetico, al golem di parole che buca la quarta parete, e si impone al pubblico come materia viva impastata nei suoni. Ha la potenza tragica di una Andromaca il cui Astianatte ha il filo reciso ancor prima di essere intessuto. La sua voce si fa ventre femminile, e teurgicamente ritrova nella vibrazione della carne insieme il suo silenzio e quello della divinità, è posseduta letteralmente dal suo personaggio , ed in quella trance riferisce gli oracoli di un dio impossibile come Pizia lombarda. Giulia Mazzarino incarna con forza e convinzione l’agnello sacrificale che offre una luce consapevole e maliziosa nello sguardo, rappresenta un’altra declinazione di questo femminile la cui luce vive un fenomeno di diffrazione e scomposizione nel prisma di questa regia. L’attore Vincenzo Giordano attinge la sua vocalità nelle viscere profonde delle bolge infernali, ed i suoi suoni portano in dote l’incessante ribollio magmatico del piombo fuso che scotta le coscienze della platea. Anche la sua fine, preceduta da una follia dal sapore aiacesco, è una riuscita pantomima pittorica dove la carne è già qualcosa di diverso della carne, un ineffabile che l’ha consumata, e la lascia in balia di se stessa nell’immagine di una deposizione.

I suoni che animano e si avviluppano alle battute dei personaggi sono volutamente disturbanti, rappresentano un tempo vivo, cardiaco, che batte incessantemente, e si amplifica passando dalla dimensione cronologica a quella di cairologica, un tempo di mezzo, un istante che si fa beffa dello scorrere sequenziale degli istanti per occupare lo spazio oltre se stesso, come nelle estasi testoriane della monaca. Demoni al neon illuminano e sfriciccano sulle anime di questi esseri scenici. Le luci si arrossano o si raffreddano per temprare l’acciaio vivo di queste anime perdute, le quali, di sillaba in sillaba, lacerano quella barriera trasparente che si interpone tra loro e gli spettatori. Questa monaca di Monza, raccontandosi post mortem senza sconti, mostrando impietosamente nella morgue scenica i dettagli anatomici della sua anima, tiene letteralmente la platea incollata alle poltrone, facendole respirare i suoi fiati, e l’urgenza del vivere, o meglio della risoluzione allo scacco matto della vita, è espressa meravigliosamente da questo personaggio, che vive oltre l’esistenza, nell’assoluto poetico.

Danilo Caravà

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