Recensione: “Il bambino sogna”

il bambino sogna

Claudia Della Seta cura la traduzione e la regia, assieme a Stefano Viali, del brillante testo di uno dei più importanti autori israeliani del dopoguerra, Hanoch Levin. “Il bambino sogna” rimarrà in scena fino al 29 marzo al Teatro Franco Parenti.

Due genitori osservano dolcemente la pace del loro bambino addormentato. A rompere questo quadro “sacrale” si riversa nella stanza la caoticità e crudeltà del mondo adulto: un gruppo di vicini inseguiti arriva di corsa, un violinista sanguinante cade in terra e agonizza, un comandante della polizia arresta tutti. Momenti concitati e di pura follia che fanno da preludio ad un viaggio, quello di una madre col suo bambino, che attraverserà territori stranieri e sentieri onirici; una fuga dal sogno che si è tramutato in incubo.

il bambino sognaIl sogno è un riparo. Per un momento, nel buio, possiamo permetterci di non avere il controllo. Del nostro corpo, della nostra mente, della nostra vita. Il bambino sogna e non si rende conto della tregua che lo stato onirico concede. Ma quando nella notte, che è giorno in chissà quale altra parte del mondo, la vita è prepotente e impertinente, si prende il lusso di invaderci il sonno, privarci della quiete e ricordarci che, mentre dormiamo, la colpa, l’odio, il sangue, non cessano di esistere, nemmeno per un breve, fragile, lasso di tempo. Ciò accade al bambino dell’opera, che in una sorta di precoce quanto rapido percorso di formazione, sente il peso di essere adulto, apprende il dolore, la separazione, il terrore; sperimenta l’assenza del padre e l’amore, a tratti feroce, della madre; assiste, impotente, agli eventi che si susseguono intorno a lui e sui quali non ha alcun potere d’azione.

In uno spazio scenicamente arido si muovono i personaggi della pièce, impiegando scale, pedane, soppalchi, abitando l’intima sala e consentendo allo spettatore di mutare, frequentemente, il punto di vista e spiazzandolo attraverso un utilizzo straniante del sonoro, che un attimo accarezza e quello dopo angoscia la percezione, ad opera di Poldy Shatzman. Ottimi interpreti supportano la visione registica che guarda al sogno come una recita, nella quale i ruoli cambiano continuamente e le situazioni evolvono rapide, tenendo costante l’attenzione ma rischiando di appesantirla con apart musicali poco funzionali.

“Come sopravvivere alla vita, e per cosa? A che prezzo?”. E’ la domanda che ricorre spesso all’interno dell’opera, dalla bocca della madre, figura emblematica, apprensiva e al contempo cinica, che fa della ferocia necessità e dell’amore salvezza. L’infanzia, ci dice Levin, non è un porto sicuro. Anzi, non esistono luoghi che possano prometterci sicurezza e stabilità all’interno dell’insensibile e gerarchico sistema mondiale. Navighiamo continuamente in acque, per loro natura, agitate. Ognuno ripone la propria fiducia su una zattera o un gommone, sulla religione o la razionalità, su sè stessi o sugli altri. Attendiamo che qualcosa o qualcuno ci dica come, quando, per quanto tempo ancora saremo in mare, inutilmente. Dall’infanzia fino all’età adulta dovremo, necessariamente, combattere per raggiungere la terra ferma. Sempre che ciò sia possibile.

Giuseppe Pipino

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