Intervista a Liv Ferracchiati

Liv Ferracchiati

Dal 20 al 25 marzo “Un eschimese in Amazzonia”, ultimo capitolo della Trilogia ad opera della compagnia The Baby Walk, debutta a Campo Teatrale. Liv Ferracchiati racconta a MilanoTeatri la genesi dell’opera e il suo prezioso e limpido punto di vista registico, lasciandoci una visione lucida e consapevole di una tematica fondamentale.

“Un eschimese in Amazzonia” conclude la Trilogia sull’Identità, che prende avvio nel 2015, in concomitanza con la formazione della compagnia The Baby Walk. Come nascono entrambi i progetti?
La compagnia nasce e si forma intorno al progetto della trilogia. In realtà, la raccolta dei materiali ha inizio nel 2013 e dopo circa un anno, insieme alla drammaturga Greta Cappelletti, ho cominciato a elaborare il primo capitolo “Peter Pan guarda sotto le gonne”. Intorno a questo lavoro si è formato poi l’intero gruppo, a partire dagli attori fino ai collaboratori tecnici. Da lì abbiamo proseguito tale percorso insieme, fino ad estremizzare questo lavoro di squadra nell’ultimo capitolo, portando sul palco non solo me, di solito regista, ma anche la coreografa Laura Dondi, la drammaturga, nonché il tecnico delle luci. All’origine, ciò che mi interessava era conoscere e approfondire una tematica, come quella dell’identità di genere, che è poco conosciuta e molto mistificata. Spesso si parla di transessualità solo come di transizione fisica, che può essere una diretta, ma non necessaria, conseguenza della volontà di perseguire il proprio benessere soggettivo. Ciò che mi premeva indagare, innanzitutto, era la dicotomia tra corpo e mente, intesa non solo come cervello, ma soprattutto come apparato periferico che si propaga per tutto il corpo, influenzando la percezione degli altri. Infatti, nel secondo capitolo in particolare, un’attrice interpreta un uomo, proprio come accade nella vita le persone transgender possono non prendere ormoni e compiere operazioni fisiche, ma vivere una vita al maschile pur avendo un corpo femminile o viceversa. E mi colpisce come cambi, in base a ciò, la percezione di sé stessi ma anche degli altri, che cominciano a rivolgersi e a vivere la persona in base all’identità di genere che sente propria. In generale, la transessualità, oltre al transgenderismo, è poco conosciuta in sé e ciò nonostante viene spesso raccontata in maniera molto mediatica, privandola della dimensione ordinaria. L’idea di base è stata, quindi, quella di raccontare la naturalità e l’ordinarietà della tematica, che ho appreso solo conoscendo persone realmente coinvolte.

A differenza dei primi due capitoli, qui appari in prima persona sul palco. Cosa ti ha spinto a presentarti direttamente in scena?
Perché, in qualche maniera, è come se la voce dell’autore si facesse carne, personaggio. Tant’è che l’Eschimese, a un certo punto, afferma di essere stanco di parlare di identità di genere, per quanto sia importante farlo, semplicemente perché non c’è più nulla da dire. All’ inizio del mio progetto, pensavo ci fosse tanto da dire, molto da far capire. Poi ho compreso, nel corso della trilogia, che se si smettesse di cercare qualcosa da dire e ci si avvicinasse ad esso, il transgenderismo verrebbe percepito come una normale variabile della natura umana. Il teatro dovrebbe aiutare a capirlo e spero che la Trilogia possa sostenere tale processo di comprensione.

Spesso curi diversi aspetti di uno spettacolo, a partire dal testo, per cui avrai sicuramente più abilità nel gestire opere originali. Come affronti, invece, dal punto di vista registico, i testi di altri autori? E quanto è importante l’elemento autobiografico?
Premetto, innanzitutto, che nessuno dei tre capitoli presenta aspetti prettamente autobiografici: sicuramente il percorso parte da una situazione che conosco e ho imparato a conoscere attraverso l’incontro con persone transgender. Inoltre, la peculiarità del mio lavoro, ora come ora, è lavorare su progetti originali e testi ex novo, che spesso scrivo personalmente. Ciò nonostante, anche nell’affrontare testi altrui, l’approccio è in realtà molto similare. Per me la direzione dell’attore, ad esempio, è una forma di scrittura e il quid del mio fare regia; prediligo una scena in cui c’è l’attore, il suo modo di esprimere le parole e le relazioni che, con esse, si strutturano. Questa è, sostanzialmente, la mia cifra registica: l’interesse non tanto per l’estetica, quanto per l’essenza del lavoro con l’attore e la sua semplicità, l’intessitura delle intenzioni e ciò che ne scaturisce.

La Trilogia sull’Identità ha colpito anche Antonio Latella, che ha deciso di averti alla Biennale di Venezia nel 2017. Avrai avuto l’occasione di confrontarti con diversi registi e autori affermati, nonché con la stampa e critica estera. Cosa porti con te da questa grandiosa esperienza?
Da questa preziosa occasione, per la quale ringrazio molto Antonio Latella, porto sicuramente il primo incontro con un palco veramente importante, che, nella sua totalità, mi ha fortificato rispetto a quello che è il mio lavoro. Tuttavia, nel momento in cui ciò che preme al regista è lo spettacolo e il suo miglioramento ad ogni replica, trovarsi sul palco di Venezia, come su un altro meno noto, non cambia molto, quello che c’è in gioco è più importante. Un palco prestigioso dev’essere una conseguenza del proprio lavoro e non il fine primario. Non bisogna guardare al luccichìo, ma avere un progetto forte e lavorare profondamente su esso.

In un’intervista al Corriere della Sera, hai affermato: “Identità di genere significa parlare di tutti, è il percepirsi uomini o donne, solo che i transgender ci devono sbattere il muso contro, mentre gli altri la danno per scontata.” Pensi che la società italiana, nel suo complesso, abbia acquisito tale verità nei confronti della tematica gender?
Trovo disonesta l’intervista di cui parli, ma quello è uno dei pochi punti in cui mi riconosco. Purtroppo ritengo che siamo ancora molto lontani da questo. In Italia, così come in altri Paesi, spesso manca una conoscenza appropriata dei concetti di cui tratto. Ovvero, spesso si confondono due espressioni portatrici di due diversi significati, orientamento sessuale e identità di genere. Ciò sicuramente è dovuto alla mancanza di un’adeguata politica educativa in tal senso. Potremmo dire, in termini hegeliani, che ci troviamo in piena antitesi rispetto al processo dialettico, sperando di poter giungere quanto prima ad una sintesi felice.

La Trilogia, dal suo esordio fino al capitolo finale, riguarda l’analisi e l’approccio alla parola, prima come mancanza, poi come rappresentazione, infine come fragilità. Cosa diresti allo spettatore affinchè non si perda l’occasione di svolgere questo viaggio, delicato e al contempo estremamente sincero all’interno di una tematica spesso bistrattata e condannata?
In realtà, consiglierei la visione dello spettacolo non solo per ciò che riguarda la tematica in sé, fondamentale, ma soprattutto per una questione di linguaggio teatrale. E’ interessante il lavoro svolto su di esso all’interno dei tre capitoli, in maniera differenziata e anche rischiosa, si può dire. A tal proposito, io definisco Un eschimese in Amazzonia uno spettacolo, per sua natura, sbilenco, perché si lavora su una componente strutturale forte, portata avanti dal coro, e sulla fragilità della parola, attraverso l’improvvisazione dell’Eschimese. Il fatto di vedere in scena una persona che non sta recitando ma che affronta punti tematici, in maniera totalmente libera, determina una mutabilità intrinseca dell’opera, che ogni sera instaurerà una diversa relazione con lo spettatore e ciò la rende viva e vera. Su tali basi, lo reputo un esperimento rischioso, ma affascinante.

Intervista di Giuseppe Pipino

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